La Certosa rapita (di Luigi Alfieri)

Luigi Alfieri

L’articolo di Andrea Marsiletti sull’identificazione della Certosa di Parma (LEGGI) riapre un’antica disputa letteraria.

Tema: in quale luogo Marie-Henry de Beyle, in arte Stendhal, ambientò il più celebre romanzo dell’Ottocento? La risposta sembra semplice: Parma. Invece no: la risposta è difficile. Molti sostengono di no (e su questo torneremo più avanti).

Ma, se il luogo di cui parla Stendhal fosse Parma quale sarebbe la Certosa?

Andrea, innamorato dell’ordine religioso dei certosini, dà la risposta che avrebbero dato Catalano (Quelli della notte) e Monsieur de Lapalisse (La Palice): La Certosa di Parma è la Certosa di Parma. Cioè il complesso architettonico che oggi ospita la Scuola di polizia penitenziaria, nei paraggi di via Mantova. Non vi è dubbio che questa sia la sola ed unica Certosa di Parma.

Ma… Ma Stendhal nel romanzo scrive: “La dimane, dopo aver mandato a chi di ragione le dimissioni dal suo ufficio di arcivescovo e la rinunzia a tutti gli altri uffici ed onori di cui lo avevano successivamente colmato il favore di Ernesto V e la benevolenza del conte Mosca, si ritirò nella Certosa di Parma, nelle selve prossime al Po, a due leghe da Sacca”. (leggi trama romanzo)

E allora? Allora ecco che qualche storico “furbastro” ambienta, non senza interessi particolari, il luogo standaliano per eccellenza nel complesso architettonico di Valserena, sulla via per Colorno, e quindi per Sacca, oggi sede dello CSAC. Peccato – ci spiega Andrea – che quella di Valserena non sia una certosa, abitata da certosini (monaci assai pazienti e tolleranti di ogni invenzione letteraria), ma un’abbazia abitata da cistercensi, che dai certosini sono altra cosa. E che poi dalla certosa (quella della scuola di polizia) sia raggiungibile Sacca è indiscutibile (aggiungo io). Quindi nei fatti e nella topografia (altra cosa è la fantasia letteraria) esiste una sola Certosa di Parma e si trova dalle parti di via Mantova.

Ma Stendhal se lo tirano tutti per la giacca. E tutti dimenticano che le opere letterarie sono il frutto della fantasia, compresa la nostra Chartreuse. Quindi? Quindi tutto è possibile. E Allora? E allora uno degli scrittori più geniali del Novecento, Antonio Delfini da Modena, scrive un libro, “Modena 1831, la città della Certosa”. E cosa dice questo libro? La Certosa di Parma, in realtà è la Certosa di Nonantola, e Parma non è Parma, ma Modena. Ma daaaaai, direte voi. Anch’io dico ma daaaai, Delfini, che dicesti? Vi spiego: io ho conosciuto assai bene due antichi letterati parmensi, Attilio Bertolucci e Gian Carlo Artoni, ed entrambi, in forma confidenziale, mi hanno raccontato la seguente storia, che poi ho sentito narrare pure da Vittorio Sgarbi, in un incontro col pubblico, da me moderato, a Zibello.

Dunque, Antonio Delfini, nel secondo dopoguerra, frequentava assiduamente l’ambiente letterario parmigiano, uno dei più vivi di allora. Gli intellettuali parmigiani si ritrovavano nei bar della Piazza (Garibaldi, ça va sans dire). Ma in questi bar sostava spesso una giovane ereditiera parmigiana, discendente da una grande famiglia di industriali (a scanso di equivoci non sono i Barilla). Egli se ne innamorò non ricambiato. Nel tempo fu oggetto di continui rifiuti. Dopo una lunga serie di no, cominciò ad odiare non solo l’ereditiera, ma pure la sua città natale; Parma, appunto. Da buon modenese, invece della Secchia, pensò di rapire la Chartreuse.

Scrisse il già citato libro Modena 1831. E spiegò al mondo che Marie-Henry aveva scritto Parma ma voleva scrivere Modena. Ridicolo direte voi. Mica tanto. Il più grande narratore francese dell’Ottocento, Honoré de Balzac, sostiene nel libro “Ètudes sur Stendhal e la Chartreuse de Parme” (ristampato in 500 copie numerate nel 1967 a Parma, a cura del sublime grafico Erberto Carboni in caratteri bodoniani, in occasione del VI congresso standaliano internazionale, tenutosi nella nostra città e non a Modena – libro che ho comprato per 5 euro in un mercatino), che la Parma di Beyle è, in realtà Modena. E questa è la prova che anche una mente titanica può partorire topolini, come la celebre montagna.

A rimettere a posto tutto l’impianto della Certosa ci ha pensato uno dei più grandi studiosi della letteratura francese (alle cui tesi umilmente mi associo): Luigi Foscolo Benedetto, autore di “La Parma di Stendhal”, riedito da Adelphy nel 1991 (questo, al mercatino, lo ho pagato 20 euro). Sono 500 pagine che così riassumo: La Certosa di Parma è la Certosa di Parma. A Modena si tengono la Secchia rapita e morta lì (questo lo dico io, non Benedetto). Lo stretto legame tra Parma e Stendhal è rappresentato dai Farnese, di cui Henry era cultore quasi fanatico (possedeva un’incredibile collezione di testi manoscritti sulla famiglia dei duchi di Parma, raccolti a Roma) oltre che dalle sue visite (non vi risedette mai e le sue comparse furono fugaci, ma numerosissime) nel Parmense. Il personaggio principale del romanzo del grande francese, Fabrizio Del Dongo, altri non è che la trasposizione letteraria del giovane Alessandro Farnese (vescovo di Parma), poi divenuto papa Paolo III. La trama del romanzo è ripresa da una delle storie raccolte da Stendhal, storia nella quale già compaiono i prototipi della Sanseverina (Sanseverino erano i signori di Colorno) e del Conte Mosca. Il resto leggetelo sul libro di Benedetto, se lo trovate.

Chiosa finale: a chi verrebbe in mente di pensare che “Notre-dame de Paris” di Victor Hugo sia la cattedrale di San Paolo a Londra?

Luigi Alfieri

Testi citati da Luigi Alfieri

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