31/05/2012
È passato del tempo dal “giorno piu brutto”, ma Oskar Schell non si dà pace. Suo padre lo ha lasciato con una missione incompiuta, con molte domande e una sola certezza: non deve smettere di cercare. Quando, nell’armadio del genitore, trova una chiave e un nome, Black, Oskar trova con essa anche la spinta e l’alibi che gli mancavano. Incontrare tutti i 472 Black di New York City per testare le loro serrature diventa per il bambino un modo di coltivare il sogno che quella chiave possa schiudergli un ultimo messaggio del padre e una maniera di scappare ancora il più a lungo possibile dall’evidenza. “Cosa ti manca di piu di lui?”, chiede Oskar alla madre. “La sua voce”, risponde lei. E anche a lui mancano più che mai le parole del padre, vere e proprie istruzioni per l’uso della vita, e non a caso è ad un nome che si aggrappa e sempre non a caso è a un’occasione di dialogo persa per sempre che non si rassegna. E poi c’e l’inquilino, per il quale le parole ad alta voce non si possono più pronunciare, non dopo quello che è accaduto a Dresda, ma al quale la scrittura consente comunque di continuare a vivere.
Non è tutta colpa di Stephen Daldry, dunque. Un materiale come quello redatto da Jonathan Safran Foer è fatto di scrittura e per la scrittura e il cinema, per lo meno quello narrativo tradizionale, può aggiungere davvero molto poco. O per lo meno dovrebbe.
La sceneggiatura di Eric Roth, pur all’interno di uno sforzo evidente di fedeltà al libro, opera una selezione che fa coincidere l’intero film con il suo giovane protagonista e finisce per confondere la ricchezza e l’originalità del narrato con la performance attoriale, certo eccellente, di Thomas Horn. In questo modo, la porzione di storia selezionata si rivela comunque claustrofobica e compressa: i tempi del cinema si avvertono scopertamente come innaturali. Eppure questa è ancora una scelta comprensibile, forse obbligata. Ce ne sono altre più ardue da condividere, come il modo in cui gli adulti si rivolgono al protagonista, con un portato recitativo infarcito di retorica, che getta un dubbio retrospettivo sull’effettiva, intima comprensione tra regista e personaggio. E poi c’è un secondo livello di retorica, che riguarda l’uso dell’immagine dell’11 settembre, insistito ed estetizzato. Come se ci fosse bisogno di sentimentalizzare un’immagine che parla da sé con forza inaudita, forse l’immagine che più ha parlato al mondo negli ultimi decenni.
È anche per questo, allora, perché lì non ci sono parole di troppo, strozzate nel pianto o urlate nell’isteria del momento, che la parte più bella e riuscita del film è senza dubbio quella in cui Oskar e il vecchio Max Von Sydow camminano per la citta, prendono i mezzi pubblici, bussano alle porte, si nascondono dietro una siepe: qui, su questa strana coppia che si muove nello spazio metropolitano, il cinema ha finalmente qualcosa da dire. Ma dura poco.
(Si ringrazia Mymovies.it per la collaborazione)
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