
Cos’è immenso questo disco di Cave e dei suoi “semi cattivi” lo si intuisce presto, ma lo si capisce solo nel tempo lungo… ruminando, riascoltando, diventando meno giovani… Perché in questo album capolavoro del 1990 Nick Cave abbraccia la croce della musica contemporanea, si lascia scuotere insieme ad essa, su e giù per vette e abissi dell’anima, in ogni dove, con atteggiamento lirico e sanguigno al contempo.
“Nick Cave è il cantautore più significativo degli anni Novanta – scrive Claudio Frabetti su Onda Rock e lo condivido – perché rispetto ai suoi colleghi riesce ad andare più a fondo. Sa esplorare gli abissi della mente, ai confini con (e spesso oltre) la follia. Sa terrorizzare e illuminare, sconcertare e commuovere”. Qualcosa di così potente riesce anche al mai abbastanza rimpianto Jeff Buckley, che però non è propriamente cantautore, ma più musicista e interprete.
Musicalmente “The Good Son” è un album che si regge sulle ballad, il genere che Cave da sempre o quasi alterna con cavalcate punk-rock, sporche e bluesy, che in altri dischi hanno la meglio, ma che qui vengono contenute in due pezzi (“The Hammer song”, intensa e percussiva. anche se non esplosiva, e “The Witness song”, trascinante hit sullo stile di “Deanna” e dei primi Bad Seeds, ma con un tocco gospel a renderla più corale).
Per il resto emerge il potente ma fine cantore delle anime in cerca di fede, salvezza, poesia. Qualcuno, in nome delle attitudini laiche e materialiste presenti nella musica contemporanea, potrebbe snobbare questa ansia di spiritualità, questa confidenza col sacro, che è un po’ il fil rouge di quest’opera… Sarebbe un grave errore.
Nick Cave è attualissimo (nel ’90 era semplicemente molto avanti), nel ripescare un linguaggio adatto allo straniamento dei contemporanei, un linguaggio che anche i Radiohead fanno loro, sebbene non risolvendolo in chiave di speranza. Cosa che Cave fa, ma a prezzo di sangue: e il sangue pulsa dalla musica, dalle liriche, dalla voce cavernosa, da una band che si consuma e si arrovella attorno a strutture musicali scarne ma potenti, evocative, stilisticamente uniche.
Non ci sono cadute di tono in questo poema lirico in musica. In sequenza, si parte da un inno dal sapore liturgico – “Foi na cruz” – che sposta subito l’ascolto verso il sacro esplicito; così come la title track, che alterna un andamento stringente e teso con una magnifica apertura nel ciclico ritornello. “Sorrow’s Child” – letteralmente “Figlia della tristezza” – è una perla indimenticabile, con piano e sezione archi in primo piano. Segue a ruota, ancora più fascinosa se possibile, “The Weeping Song”, una delle canzoni più importanti per Cave. Il meccanismo del dialogo a più voci, presente in diverse canzoni di “The Good Son”, derivante dal modo gospel, rende teatrale il sound di quest’opera. I cori vengono inseriti in ambientazioni musicali inedite, che definire classiche è inesatto, ed elevare ad avanguardie, o generica new wave, ancora di più. Diciamo che Nick Cave & The Bad Seeds hanno inventato qualcosa di nuovo: un modo non ancora ascoltato e soprattutto interpretato di approcciarsi alla canzone.
Certo la provenienza australiana e insieme la biografia drammatica dell’artista possono aiutare a spiegare la potenza ancestrale di certe immagini, sia testuali che musicali: ma da solo il ragionamento non basta. I riferimenti di Nick Cave sono quelli di un musicista a cui le influenze sono arrivate già filtrate da una predisposizione inedita alla drammatizzazione… Influenze arrivate come trasportate dagli oceani, attraverso un bastimento che ha modificato la materia, che nel viaggio è diventata qualcosa di diverso. Certo, si sente l’impostazione vocale e mistica di Jim Morrison, ma non diresti mai che i Bad Seeds sono sulla scia dei Doors. C’è il punk rabbioso nelle percussioni musicali più strette e ossessive, ma non ha senso metterli vicini ai Sex Pistols o ai Clash, negli scaffali. C’è la raffinata elegia tropicaleggiante di “Lament“, ma non possiamo accostarlo a Caetano Veloso. Allo stesso modo c’è la ballad classica (più che folk)… Come la sontuosa e sinfonica “Lucy”, che chiude romanticamente la migliore traversata musicale di Nick Cave and The Bad Seeds, come un chiaro di luna sull’oceano, dopo una furiosa tempesta serale.
C’è in Cave il procedimento al rallentatore – tipico dei grandi poeti come Cohen e De André – che esalta le note, le intenzioni e gli arrangiamenti scarni delle canzoni, rendendole affreschi solenni – “The Ship Song” su tutte – che potrebbero accompagnare la visione di certi dipinti ottocenteschi. Nick Cave sfonda il muro dell’arte con una manciata di canzoni indimenticabili, che trascendono: lo fa con potenza e lo fa con grazia. In questo disco, l’operazione gli riesce particolarmente.
Recensioni necessarie #14
Alberto Padovani