Sant’Ilario è un disco rotto, una celebrazione inutile da rivoluzionare. Qualche proposta (di Andrea Marsiletti)

L’ho scritto più volte anni fa: sono sempre stato molto perplesso sulla celebrazione di Sant’Ilario.

Quando entri in un teatro pieno e grande come il Regio, e di persona o di vista conosci l’80% dei presenti vuol dire che sei di fronte a un disco rotto, a un pc in loop, all’apoteosi dell’autoreferenzialità e dell’autocelebrazione della nomenclatura cittadina (di quella che conta e di quella che vuol far credere di contare), nell’assenza e nell’indifferenza dei cittadini cosiddetti “comuni”, dei parmigiani nel nome dei quali ci si riunisce.

E’ vero che si tratta della festa del patrono della città, ma è altrettanto vero che questo parlarsi addosso localistico è ormai insopportabile.

E pensare che quest’anno, va detto a merito del sindaco Guerra, per la prima volta si è guardato oltre il proprio ombelico, fuori dalle mura ducali ed è stato premiato un ambasciatore di rilevanza internazionale come Roberto Toscano che tra il ’73 e il 1975 trasformò l’ambasciata d’Italia a Santiago del Cile in un rifugio per centinaia di “asilados” politici braccati dalla polizia di Pinochet. Non solo, Guerra ha voluto un collegamento video con il sindaco di Leopoli nel mezzo delle bombe russe.

Il problema, mi pare fin superfluo precisarlo, non sta nel valore dei premiati, tutte persone meritevoli e impegnate per il benessere della comunità parmigiana, ma nella modalità organizzativa della celebrazione, nella retorica nauseante che l’accompagna, nel racconto mediatico decrepito, nell’inconsistenza dell’evento che muore il giorno dopo senza lasciare nulla di sè.



Sfido chiunque a citare non una frase ma un vago concetto espresso nei discorsi di Sant’Ilario degli ultimi quindici anni. A me non viene in mente niente. Gli unici ricordi che ho sono degli anni ancora precedenti quando Ubaldi (uno che non le mandava a dire) strinò le associazioni di categoria della città “buone solo a fare delle buste paga” oppure prefigurò il “rinascimento di Parma”.

Va da sè che non mi ha mai sfiorato la mente di dedicare tempo e commentare un discorso di Sant’Ilario, sarebbe stato per me umiliante. L’ho fatto per la prima volta con quello di Guerra che qualche stimolo me l’ha offerto (leggi).

Un’ulteriore prova di questo “culto della parmigianità” fine a se stesso: in un teatro pieno con una capienza di 1.200 persone venerdì scorso non c’era un italiano di origine straniera, un residente straniero, un clandestino. Nessuno, uno che fosse uno, in una città in cui gli autoctoni e gli stranieri si riempiono la bocca di integrazione.

Quando poi sul palco c’è chi, aprendo l’immancabile sketch delle barzellette in dialetto, ha il coraggio di dire che esse rappresentano “la parmigianità più autentica”, ti cascano la braccia e capisci che non c’è proprio più nulla da fare. E che gli stranieri forse hanno ragione a bidonare questa roba così inutile.



Qualche proposta costruttiva per l’anno prossimo.

1) la sera del 13 gennaio organizziamo una grande festa popolare in piazza, che metta insieme storia, divertimento, socializzazione, solidarietà, musica (possibilmente contemporanea);

2) sul palco, al posto delle autorità cittadine che ormai tutti bene conosciamo, mettiamoci la città, le scuole, i giovani, le comunità straniere, le nostre eccellenze imprenditoriali;

3) non riserviamo nessun posto a nessuno. Facciamo entrare aria fresca, allarghiamo la partecipazione. Se qualche notabile sarà costretto a rimanere fuori ce ne faremo una ragione.

Parma andrà avanti lo stesso.

Andrea Marsiletti

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