It e il mito della caverna di Platone (di Marcello Frigeri)

“Grazie a quel cibo nutriente It conduceva la sua esistenza in un semplice ciclo di veglia per mangiare e sonno per sognare. Aveva creato un luogo a sua immagine e lo rimirava con orgoglio dai Pozzi Neri che aveva per occhi. Derry era il suo mattatoio, la popolazione di Derry erano le sue greggi. Così era stato. Poi… quei bambini. Un fatto nuovo. Per la prima volta da sempre”.

Introduco It partendo da questa citazione del libro, in cui è chiaro il climax dell’opera magna di Stephen King, un romanzo destinato a diventare un classico della letteratura contemporanea.

A Derry, cittadina sonnolente del Maine dove la storia si svolge, vi è un’entità straniera che dall’alba dei tempi compie il suo ciclo eterno tra mattanza e sonno, fino a che un gruppo di sette bambini non spezza quella catena. Il grande romanzo di It è prima di tutto la storia di una rottura.

Mettiamola così, un bel giorno sette fragili bambini alzano la testa scoprendo la bellezza e il calore della luce del sole. Abbiamo già letto di una vicenda simile: tra le memorie di Platone. Quel mito della caverna in cui un prigioniero in catene dalla nascita è costretto a fissare la parete davanti a sé, dove la luce del focolare proietta la sua ombra e quella degli altri prigionieri. Egli in un primo momento ritiene che le ombre siano la realtà del mondo, perché sono l’unica cosa che gli è concesso vedere, ma poi avviene la sua personale rottura: presto si accorge che le ombre sono solo apparenza. La realtà, quella vera, è la vita libera dalle catene che lo obbligano, ed è la vita fuori dalla caverna: l’aria, l’acqua, le piante, il sole, il cielo, gli altri uomini, la bellezza. La realtà è la libertà.

Nell’opera di King a spezzare il ciclo di It sono stati dei bambini, e non è un caso. Ma ci arriveremo: ora è importante fissare il contesto, quella fondamentale crepa insinuatasi nella routine omicida di It, quell’incrinarsi improvviso e violento di un mondo che proseguiva in eterno il suo monotono e ciclico sabba: la rottura prodotta dall’arrivo di sette fragili bambini.

It, le tre ipostasi

Chi non ha letto It lo immagina come un mero romanzo horror tra i tanti pubblicati e riprodotti sul grande schermo. Niente di più falso e superficiale: It è un’opera monumentale multiforme, la cui caratteristica è di abbracciare un ampio ventaglio di tematiche esistenziali come l’infanzia, l’amicizia, l’amore, l’indifferenza; poi ancora: il coraggio, la violenza, il distacco, il legame. Il piano reale dell’opera – con un po’ di imprudenza potremmo associare il realismo di Verga a quello kinghiano – si amalgama alla perfezione con il piano metafisico – le ultime 300 pagine del romanzo sono un tuffo incredibile in una dimensione universale e trascendente -. Stephen King scava nel suo profondo arrivando a toccare gli indicibili abissi dell’esistenza, portando in superficie la storia di un epico scontro tra un gruppo di bambini e un’entità apparentemente invincibile, che personifica le paure e le contraddizioni di un’intera società.

La storia più o meno la conosciamo: a Derry ogni 27 anni si risveglia un essere che reclama il suo banchetto di sangue. In quelle settimane di violenza e terrore che seguono il risveglio, It sprigiona il Male disinteressato e incommensurabile: spariscono bambini mentre in città esplodono episodi di ingiustificata violenza, culminanti in un climax di massimo dramma e morte che sancisce la fine del ciclo di It e l’inizio del suo letargo lungo 27 anni. Un gruppo di sette bambini, il club dei Perdenti, spezzerà questo “eterno ritorno dell’uguale” di nitchiana memoria.

Ma noi, il cui fine è scovare tra le pieghe dei libri la fotografia del nostro mondo, non ci soffermeremo sulla trama, né parleremo dei temi classici di It come l’amicizia e l’amore, andremo direttamente al nocciolo del libro per impossessarci delle tre ipostasi che lo compongono, ovvero andremo alla scoperta della sostanza del romanzo. Le tre ipostasi sono le seguenti:

la realtà contro l’irrealtà;

l’unità contro l’individuo;

la magia.

La realtà contro l’irrealtà: King ribalta il mito della caverna

“Ti piacerà qui, te lo prometto, a tutti i ragazzi e le ragazze che incontro piace molto perché qui è come l’isola dei divertimenti di Pinocchio e il paese del Mai-Mai di Peter Pan”.

In questa citazione It tenta di persuadere Ben Hascom, uno dei sette Perdenti, a seguirlo nei Pozzi Neri. L’entità si nutre delle nostre peggiori paure, nutrendosi di esse si manifesta a noi. Ma It è qualcosa di reale? Perché ha bisogno di manifestarsi? Non sarebbe più semplice che consumasse il suo tributo di sangue senza presentazioni o convenevoli? No: per uccidere ha bisogno che lo si riconosca come un’entità reale. It esiste nella realtà, ma attecchisce solo sulle persone che riconoscendolo lo legittimano.

Derry è una cittadina in cui It e i pensieri degli adulti sono una cosa sola: Derry è It. L’essere ha in sé il potere di condizionare la vita e l’esistenza degli adulti di Derry, che non possono vederlo perché ne sono parte. Sarebbe come chiedere a un pesce di descrivere dall’alto l’oceano in cui sguazza: il pesce è parte dell’oceano e non può trascenderlo, quindi non può descriverlo se non dal suo limitato punto di vista. Ma King ci insegna che i bambini sono pesci con le ali che osservano l’oceano dal cielo: vivono l’età dell’innocenza, che come una magia permette loro di riconoscere i contorti lineamenti di It. It non è reale per i bambini, ma lui per ucciderli ha bisogno che essi lo credano tale.

Ma cos’è It? Senza addentrarci nell’epico Universo di King composto da It, la Tartaruga e l’Altro, analizziamo il suo manifestarsi secondo le leggi di Natura del nostro mondo. Il suo nome è Pennywise, il clown danzante. Penny e wise, ovvero il nome della valuta anglosassone e la parola “saggio”: il Penny saggio. Tra i critici del romanzo alcuni associano It – Pennywise – al capitalismo contemporaneo. L’uomo è immerso nello stile di vita capitalistico (il pesce nell’oceano), quindi ne è soggiogato (incapacità di descrivere l’oceano in cui il pesce vive).

Gli adulti non possono vedere It perché fanno parte di quel mondo immerso nel capitalismo moderno, ma i bambini possono vederlo perché durante l’età dell’innocenza si vive al di fuori della caverna, liberi dalle catene mentali di quella prigionia (Platone). Derry è il mondo del capitalismo e It è il capitalismo, la consuetudine, la routine, l’appiattimento della vita, l’ingranaggio monotono del mondo; il club dei sette Perdenti, libero dalla morsa dell’età adulta, è l’età dell’innocenza che può fermare il ciclo eterno che condanna l’umanità.

Stephen King ribalta così il mito della caverna di Platone: si nasce bambini liberi, ma crescendo si è condannati alla vita nella caverna – il sistema capitalistico impone all’uomo lo stile di vita -. Il romanzo di It è un inno all’infanzia e al difficile passaggio all’età adulta, momento perturbante in cui la magia dell’innocenza perde energia condannandoci alla dimenticanza: una volta adulti perdiamo l’idea di essere stati bambini, diventiamo assuefatti all’iper-realismo in cui siamo immersi: tecnica, scienza, consumo, produzione, pil, industrialismo, crescita, guadagno (eccetera) sono tutte parole che confliggono con fantasia, mistero, gioco, sogno, gioia, innocenza, bastarsi, sorrisi (eccetera).

King, però, ci ricorda che l’infanzia non è sempre l’età della bellezza e della spensieratezza. Il club dei sette Perdenti ha alle spalle storie difficili: quando colpisce, il mondo degli adulti sa ferire nel profondo anche l’età dell’infanzia. Bill Denbrough è un bimbo balbuziente che dopo la morte del fratellino Georgie perderà l’interesse dei genitori nei suoi confronti; Beverly Marsh è picchiata e dominata dal padre-padrone; Richard Tozier è un quattrocchi; Edward Kaspbrak è un fragile ipocondriaco con un’asma psicosomatica, soffocato dalla presenza ingombrante della madre; Stanley Uris è un ebreo di buona famiglia, ma proprio perché tale preso di mira e schernito; Ben Hascom è un bimbo obeso e per questo violentemente bullizzato; Mike Hanlon è un ragazzino di colore e, beh, immaginatevi cosa volesse dire essere nero nell’America degli anni ’50, periodo in cui è narrata la storia.

Seconda ipostasi: l’unità contro l’individuo

Bill, Beverly, Richard, Edward, Stanley, Ben, Mike si sono imbattuti in It riuscendo miracolosamente a sfuggire alla morte. L’entità si manifesta quando sono soli e abbandonati al mondo che li fagocita. Si materializza sotto forma dei loro incubi peggiori nel tentativo di divorarli.

I sette Perdenti, presi ognuno per sé, non possono far altro che fuggire lontano, come se scappassero dall’alienazione del mondo in cui gli adulti vengono gettati. Ma è nell’unità, nel gruppo unito dei sette Perdenti, che i bambini troveranno la forza di affrontarlo due volte e vincerlo. Sono loro contro il mondo. It è un’entità che basta a se stessa, emblema di una società in cui l’individualismo segna il passo. It è come “L’unico e la sua proprietà” di Max Stirner, un libro dissacrante in cui Stirner esalta la concezione dell’individuo egoista: “Il mio spirito non è il vostro spirito, il mio potere è la mia proprietà, proprietario del mio potere sono io stesso”. Nel mondo di It esiste solo It, l’individualità alienata e alienante.

A contrapporsi è l’unità dei sette Perdenti, che si stringono l’un l’altro in un cerchio magico simboleggiante la relazione e l’unione. L’uomo, come dice anche il bravo fisico quantistico Carlo Rovelli in “Helgoland”, non è una monade che basta a se stessa, ma relazione con altri uomini e con le cose del mondo. Io sono la relazione tra me e queste righe che sto scrivendo, tu sei relazione con queste righe che stai leggendo, sei relazione con il libro che tieni in mano, con la persona che hai incontrato per strada; sei relazione con ogni cosa che osservi, tocchi, senti e vivi.

Rovelli ha ragione, Stirner torto. It è l’immagine di un sistema in cui l’uomo è sempre più individuo e sempre meno relazione e unità. Da soli non siamo nulla nel vero senso della parola: da soli, come uomini, non esistiamo. Esistiamo nell’unità con altre persone e viviamo in quell’unità. I sette Perdenti sono l’immagine dell’unità da cui scaturisce l’amore, l’amicizia, il legame, la sofferenza, il distacco, la bellezza, la felicità, il coraggio, la forza. Questi, sono tutti elementi che afferiscono all’unità degli individui. L’unità massima può essere lo Stato, Dio per alcuni, l’Essere in quanto Essere per altri, l’amore per altri ancora.

Ma il capitalismo può essere visto come l’assenza di unità, quindi la distruzione di tutti gli immutabili (Dio, lo Stato, l’amore, l’Essere). Pare che King voglia ammonirci del fatto che nel capitalismo la relazione è tra monadi, ed ogni monade è il proprio alienante mondo.

Terza ipostasi: la magia, entrata e uscita dalla caverna

Arriviamo infine al termine del nostro viaggio tra le pagine di It. E il termine della notte, là dove l’alba traccia la linea dorata dell’orizzonte, è un ritorno alle origini fuori dalla caverna di Platone. Quando eravamo bambini vivevamo al suo esterno, crescendo ci siamo entrati. Ora King ci dice come ritornarvici fuori. Ed ecco che uscendo incontriamo Hegel e la sua dialettica: tesi, antitesi, sintesi. Fuori dalla caverna durante la nostra infanzia (tesi), dentro la caverna nell’età tra l’infanzia e l’età adulta (antitesi), di nuovo ad ammirare la luce del sole una volta scoperto l’inganno del mondo (sintesi). Come detto, King ribalta Platone e lo fa tramite Hegel: nasciamo liberi perché innocenti e cresciamo in catene. La magia è il ritorno alla libertà.

Con Hegel al nostro fianco Stephen King ci prende per mano indicandoci la strada per sconfiggere It: ritornare bambini. “Ragazzi, il romanzesco è la verità dentro la bugia, e la verità di questo romanzo è semplice: la magia esiste”, questa è la dedica che King scriverà ai suoi figli nelle prime pagine del libro. Ci chiede, in sostanza, di ritrovare la magia che da adulti abbiamo abbandonato. Bill, Beverly, Richard, Edward, Ben lasciano Derry (tutti meno Mike, che rimane, e Stanley, che morirà), crescono e avranno successo nella vita: chi diventa un grande scrittore, chi un famoso architetto, chi un uomo di spettacolo, chi un importante imprenditore.

A tutti sarà data l’opportunità di assaggiare il successo, quell’effimero placebo che il capitalismo ci sventola davanti. Tutti lo assaggeranno barattandolo con i propri ricordi. Nella loro memoria Derry non esisterà più, né il club dei Perdenti, né quella grande amicizia, né i ricordi dell’infanzia. Nulla. Scappando da Derry e dall’età dell’innocenza, facendosi adulti, pur con tutte le sofferenze vissute, ogni cosa è stata cancellata dai loro pensieri come incantati da una magia del male.

Sarà Mike a richiamarli uno a uno ricordando loro la vecchia promessa fatta 27 anni prima: It si è risvegliato, e voi avete promesso di fare ritorno a Derry per chiudere la partita una volta per tutte. Ecco Stephen King all’apice del suo genio: la magia è fare ritorno a quell’età, uscire dalla caverna in cui siamo gettati. Sconfiggere It e il suo alienante individualismo significa ricordarsi di essere stati bambini, quando con un po’ di spensieratezza e un piglio di innocenza gustavamo il succo della vita direttamente dal nocciolo, lontani dalle sovrastrutture ciclopiche del mondo erette sulle nostre spalle e tutt’attorno. Dare un senso alla vita significa scolpire l’immagine della libertà dal granito delle sovrastrutture: la libertà, per King, è il ritorno all’infanzia.

D’altra parte l’uomo è un bambino diventato adulto, o almeno così sembra pensare Bill Denbrough il giorno in cui ritrovò quella via:

“Si sveglia da questo sogno incapace di ricordare esattamente che cosa fosse, a parte la nitida sensazione di essersi visto di nuovo bambino. Accarezza la schiena liscia di sua moglie che dorme il suo sonno tiepido e sogna i suoi sogni; pensa che è bello essere bambini, ma è anche bello essere adulti ed essere capaci di riflettere sul mistero dell’infanzia… sulle sue credenze e i suoi desideri. Un giorno ne scriverò, pensa, ma sa che è un proposito della prim’ora, un postumo di sogno.

Ma è bello crederlo per un po’ nel silenzio pulito del mattino, pensare che l’infanzia ha i propri dolci segreti e conferma la mortalità e che la mortalità definisce coraggio e amore. Pensare che chi ha guardato in avanti deve anche guardare indietro e che ciascuna vita crea la propria imitazione dell’immortalità: una ruota. O almeno così medita talvolta Bill Denbrough svegliandosi il mattino di buon ora dopo aver sognato, quando quasi ricorda la sua infanzia e gli amici con cui l’ha vissuta”.

Marcello Frigeri

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