
Beirut, maggio 2025. È una mattina luminosa quando entro nel campo profughi di Chatila, nel sud di Beirut.
Mi accompagnano un regista libanese e un residente palestinese.
Superiamo un check-point armato: una barriera che separa, simbolicamente e fisicamente, due mondi. Dentro, non è solo un campo: è una città-stato, compressa, sfiancata da decenni di abbandono, ma ancora viva.
Chatila fu istituito nel 1949 dall’UNRWA, l’agenzia ONU per i rifugiati palestinesi, con il sostegno del governo libanese. Era un rifugio temporaneo per i palestinesi fuggiti o espulsi durante la Nakba, la “catastrofe” del 1948, che seguì alla creazione dello Stato di Israele. Oggi, più di 40.000 persone vivono tra le sue mura: profughi palestinesi, alcuni dei quali sono ormai alla terza o quarta generazione, insieme a una crescente comunità siriana e libanese stessa (si tratta di persone fuggite dai villaggi del Sud confinanti con Israele e sotto attacco e occupazione illegale dall’esercito israeliano).
La prima cosa che colpisce è l’architettura del campo: palazzi alti, fatiscenti, bucati da proiettili, sventrati dalla povertà e dal tempo. Tra un edificio e l’altro, un groviglio di cavi elettrici e tubi dell’acqua. Le bandiere palestinesi e quelle delle fazioni armate come Fatah e il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina sventolano accanto a immagini di martiri: volti giovani, alcuni morti in mare tentando di raggiungere l’Europa, altri uccisi durante la guerra civile libanese. Tra tanta desolazione, però, lampeggiano lampadine colorate, come piccoli atti di resistenza alla precarietà e alla disperazione.
I vicoli sono stretti, a tratti opprimenti. In strade più ampie, piccoli negozi vendono di tutto: vestiti, frutta, spezie, pappagallini in gabbia. La vita, qui, si tiene stretta ai suoi gesti quotidiani.

Un gruppo di bambini gioca a biliardino; mi unisco alla partita. Sono curiosi, mi chiedono da dove vengo, sorridono. Alcuni adulti mi salutano portandosi la mano al cuore e chinando leggermente il capo: un gesto di rispetto che attraversa il dolore.
La presenza armata è evidente. Mentre svoltiamo in un vicolo, ci imbattiamo in un uomo con un fucile d’assalto: fa la guardia a un edificio. Dopo una breve presentazione, ci lascia passare. Poco più in là, la guida raccoglie da terra una confezione vuota di pasticche. “È droga”, dice, e mi invita a cambiare zona. Il problema della droga è cresciuto, alimentato dalla mancanza di opportunità. I residenti, in quanto rifugiati, non possono legalmente lavorare fuori dal campo. Escono, sì, ma vivono in una sorta di limbo giuridico e sociale che li espone a precarietà e criminalità.
Una porta dell’UNRWA è aperta. E’ un ambulatorio medico. Un cartello vieta l’ingresso con armi. Ma armi, qui, ce ne sono. E il loro futuro è incerto. Il prossimo 19 maggio è prevista la visita in Libano di Mahmoud Abbas, presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese. Secondo quanto riportato da Middle East Eye, Abbas chiederà alle fazioni palestinesi di disarmare, inclusa Fatah. Ma l’ipotesi divide.
“Negli anni ’80 abbiamo consegnato le armi sotto garanzie americane. Poi ci fu il massacro di Sabra e Chatila, e nessuno ci protesse”, ha riportato in questi giorni Abdullah Dandan, responsabile delle relazioni politiche del FPLP (Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina) in Libano.

È un ricordo ancora aperto: tra il 16 e il 18 settembre 1982, tra 800 e 3.500 civili palestinesi furono massacrati da miliziani cristiano-maroniti, con la complicità dell’esercito israeliano che allora occupava Beirut Ovest.
A più di quarant’anni da quell’orrore, Chatila sopravvive. E lo fa con dolore e rabbia, ma anche con una dignità che la miseria non ha scalfito. Le sue strade parlano.
Bisogna solo avere il coraggio di ascoltarle e di sperare che non vengano commessi gli stessi errori del passato.
Francesca Riggillo, giornalista