TeoDaily – Il caso della “scoperta” dell’idolatria in Messico e in Perù è il caso più eclatante di incontro, ben poco felice a dire il vero, tra cristianesimo e alterità religiosa.
Prima che il Messico cada nelle mani di Hérnan Cortés nel 1521, sono altre le terre americane ad essere scoperte e dominate. Nelle spedizioni di Cristoforo Colombo l’entroterra non viene esplorato e sulle coste di Caraibi, Colombia, Venezuela e Panama i navigatori europei scoprono un’umanità che appare in via immediata come grezza e inferiore. Niente abbigliamento, niente ori, niente templi e soprattutto nessun segno di civiltà dato dalla scrittura e dalla religione.
“Non è possibile riconoscere né setta, né religione in loro” dirà l’esperto cronista della spedizione Pietro Martire D’Anghiera. “Gli Arawak sono sprovvisti di tutto” rincarerà Colombo.
Ad aggravare un giudizio già di per sé negativo, gli spagnoli (Colombo era infatti partito per conto della dinastia di Castiglia) verificano in loco casi di cannibalismo, praticato da alcuni di indigeni sia con vittime autoctone, sia con gli spagnoli quali esseri sacrificati.
Tutto si modificò con la scoperta del Messico.
Nel 1519, il comandante Cortés arriva in Messico, dove immediatamente si rende conto che lo scenario è molto differente da quello delle coste precedentemente toccate da Colombo. Quello messicano, agli occhi di Cortés, appare come un mondo strano, né rozzo come quello dei Caraibi, né sofisticato come l’immaginata e desiderata Cina.
Viene da quel momento scoperto un ampio ventaglio di culture, i Maya dello Yucatan, i Totonochi di Veracruz, i Nahua asserviti al grande capo Montezuma. Il contesto non è stabile e frequenti scontri e guerre tra gruppi indigeni turbano l’ambiente sudamericano, già sconvolto dallo sbarco degli spagnoli.
Il mondo nahua, popolarmente conosciuto come azteco, comandato da Montezuma, pregevole e raffinato nemico di Cortés, non ha mai avuto contatti con il resto del mondo. Vissuto isolato per millenni, non ha ruota, né ferro, ma utilizza una variegatissima espressività orale. Si dedica all’arte plumaria e alla creazione di sofisticati codici pittografici, che verranno poi bruciati dagli spagnoli negli autodafé (letteralmente, “atto di fede”) in quanto interpretati come segni di idolatria.
Gli esploratori sono dunque in un mondo pericoloso, non più facile e leggibile come quello dei Caraibi. Cercano di raccapezzarsi riconoscendo ed equiparando realtà a loro familiari. Per assimilazione al mondo europeo già conosciuto, gli spagnoli traslano in questo contesto il loro vocabolario teologico. Parlano di sette, religioni, altari, sacerdoti.
Il nuovo paradigma interpretativo è fondato sull’asse: moschee, oratori, idoli, sacrifici.
Le moschee erano ben conosciute dai cattolicissimi spagnoli. Vincitori della Reconquista a danno degli islamici proprio nel 1492, anno coincidente con la scoperta dell’America, l’architettura islamica era molto presente nel territorio spagnolo, soprattutto a Granada, ultima roccaforte dei Mori, prima che questi fossero battuti e obbligati con la forza alla conversione cattolica.
In una società indigena così complessa dove si scorgono presunte “moschee”, dove sacerdoti sono responsabili di oracoli e divinazioni, dove la peintura è un’arte raffinata e delicata, dove l’arte plumaria adorna la testa dei grandi capi, la “scoperta” della religione appare quasi scontata quale evidenza ultima di civiltà, benché deviata e fallace perché non dedita al culto dell’unica e vera religio, quella cristiana.
Cortés non si pone dunque problemi a distruggere impunemente, con una furia iconoclasta inaudita, una serie di idoli e compie una violenza plateale affinché serva da monito ad una popolazione di idolatri da redimere. La Spagna è dunque la nazione eletta per evangelizzare, con una conversione di massa, questo nuovo popolo, che non può essere cacciato come i Mori della penisola iberica, ma che viene sfruttato per implementare nuovi commerci di prodotti locali, statuette e paramenti considerati idolatri, compresi.
Per i cristiani evangelizzatori, l’idolatria non è uno stato primitivo. Ciò non sarebbe possibile in una società culturalmente raffinata. L’idolatria sudamericana è una caduta, una degenerazione degli animi di quei popoli la cui origine è ignota. Apparentemente figli di nessuno, i nativi delle Americhe potrebbero essere i reduci di una complicata diaspora ebrea dei tempi di Tito e Vespasiano. La pratica della circoncisione confermerebbe agli occhi degli spagnoli questa tesi.
Di tutto questo apparato difficile da decifrare, l’assimilazione e i parallelismi con elementi già conosciuti appaiono le vie interpretative più facili ed autoreferenziali. Solo un elemento resta estraneo a questo contesto ed è il sacrificio umano. Violento, terribile, scioccante è un tratto culturale indiscusso delle popolazioni americane che non si esimono dal praticarlo apertamente davanti ai conquistatori. Associato o meno all’antropofagia richiederà parecchi anni per essere debellato dal suo contesto originario da parte dei missionari.
Chiara Allegri
Bibliografia: Brent Nongbri “Prima della religione. Storia di una categoria moderna”. J.S. Jensen “Cos’è la religione”. Bernard -Gruzinski “Dell’idolatria”
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