Il Calenda greco (di Luca Farinotti)

Luca Farinotti

Ad kalendas graecas è l’espressione che più mi colpì nei primi mesi di quarta ginnasio; era un modo di dire dell’antica Roma che indicava una scadenza inesistente dato che le calende (il primo giorno del mese romano) nel calendario greco non esistevano. Così la prof Emilia Piscopo sottolineava i miei tentativi di sfuggire alle interrogazioni: “caro Luca, tu vuoi rimandare alle calende greche, ma con me non attacca”.

Dell’antica Grecia, invece, ho conservato, dopo la fine del liceo, riferimenti certamente più reali e imprescindibili: il giuramento di Ippocrate, per esempio. E poi il discorso di Pericle agli ateniesi: non ho mai trovato un modo migliore per raccontare come sia nata la democrazia a mia figlia o ai miei nipoti, o ai loro amici. Tutte le volte mi metto a leggerlo a voce alta. E tutte le volte, a un certo punto, la mia voce si rompe nell’emozione. E devo fermarmi un momento.

Qualche mese fa ho ascoltato un comizio di Carlo Calenda (mai nome fu più profetico) in piazza Garibaldi a Parma: mi sono emozionato. Qualcuno, dopo un miliardo di anni, mi stava parlando di democrazia suscitandomi gli stessi brividi. Mi raccontava di un modo di fare politica che mi ha ricordato, dopo un miliardo di anni, quanto il mio voto sia prezioso. Qualcuno mi parlava di Pericle e per un attimo mi sono sentito un ateniese. Per un attimo, non deridetemi, ci ho quasi creduto.

Poi ho letto il suo libro: una compilazione di trascrizioni di appunti. Più fredda, quasi una secchiata d’acqua sulle emozioni che avevo provato quel pomeriggio. Quasi come quando leggi l’asciutta sceneggiatura di un testo teatrale, pensata non per la lettura ma per la recitazione: è la bravura dell’attore a darle forza. Ho cominciato a sentirmi troppo presto abbandonato dal tumulto interiore. Ero quasi di nuovo solo.

Ma la consapevolezza del valore preziosissimo del mio singolo voto, quella era rimasta. E allora ho pensato che avrei potuto continuare a credere, per conto mio, di fronte alle politiche, nella possibilità di affidare il mio voto a qualcuno che potesse governare la cosa pubblica come vorrei fosse governata la mia privata.

Avevo bisogno di un’ultima speranza.

Negli altri, in tutti gli altri è da tempo che non credo più. Per questo ho deciso da qualche anno di auto esiliarmi, forse troppo nostalgico dei politici della mia adolescenza, del mio Seneca. Del mio Pericle, che solo la peste riuscì a uccidere, più forte del suo predecessore, ucciso dagli oligarchi per aver creduto nella democrazia.

Sarà questa nostalgia a ingannarmi, a farmi vedere solo politici burini che si sforzano di assomigliare a coloro che essi stessi considerano burini per accaparrarsene i voti con poco sforzo. Questi presunti burini, poi, sono incapaci a loro volta di rendersi conto di quanto siano manipolati e sviliti dai politici stessi che essi votano per effetto di questa manipolazione ingannevole.

Sarà questa ingenua nostalgia socratica a mostrarmi sindaci senza vergogna affiliarsi a “politici” smerdati e universalmente rismerdati per aver condotto l’Italia al degrado, ai fallimenti, agli sprechi.
Nell’inedita società dell’ultimo ventennio, infatti, la τιμή, ovvero l’onore, non risiede nella conquista della pubblica stima, bensì nell’occupazione arrogante degli ampi spazi lasciati vacanti dall’estinzione della cultura: un’aberrazione in virtù di cui, per ottenere la τιμή, non è più necessario fare, ma sufficiente far credere che.

Il risultato di questa occupazione abusiva è la rovina della cosa pubblica. Un prezzo sproporzionato rispetto all’unica contropartita: dare un’occupazione e uno stipendio agli inetti.

Ecco, in mezzo a tutta questa bruttezza, a questo degrado del pensiero, a questa incipiente idiocrazia, ho cercato fino all’ultimo di rimanere attaccato con i denti al discorso su Pericle in piazza Garibaldi.

Poi ho assistito ai soliti giochini di questo inizio di campagna elettorale e ho dovuto mestamente concludere che quel discorso non era altro che una Calenda Greca. Come tutta la politica italiana degli ultimi trent’anni.

Luca Farinotti

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