Il professor Giuliano Tripodi nel ricordo di un ex soldato semplice delle sue truppe cammellate (di Angelo Balocchi)

Alcune righe di affetto e riconoscenza per il professor Giuliano Tripodi, stimato ex professore di italiano e latino del liceo Ulivi, scomparso in questi giorni

Secondo lo psicanalista Massimo Recalcati, ci sono insegnanti capaci di cambiarti la vita in una sola ora di lezione.

Questo a me è successo con Giuliano Tripodi, indimenticabile professore di italiano e latino, del quale ho avuto l’onore di essere stato allievo a metà anni ottanta, nel leggendario distaccamento del liceo Ulivi di via Benassi.

Il “Trippo” (come lo chiamavamo buffamente noi brufolosi alunni, fra una chiacchiera e un panino gommoso, durante la ricreazione) ci ha lasciato in questi giorni e forse non è stato un caso se ho avuto la triste notizia da un amico, anche lui ex studente dell’Ulivi, scuola che considero la mia grande famiglia allargata, su cui mi ritrovai ad estendere i non facili sforzi adolescenziali di diventare grande.

Naturalmente, di ore di lezione del professor Tripodi ne ho sentite ben più di una.

Ma la sua capacità di sorprendere, di essere così “regolarmente imprevedibile” e originale nei modi, faceva sì che a ogni nuovo incontro in aula si ripetesse tutte le volte la magia di stare ad assistere a qualcosa di unico e imperdibile. Come ad essere sempre coinvolti nella freschezza di una prima ora di lezione costantemente pronunciata “ex novo” da lui.

Dal professor Tripodi ho imparato che la cultura è passione, ironia, intensità, commozione, risata, innamoramento per la bellezza, utopica fascinazione erotica, amore per la libertà e goliardico istinto nel saper osservare i risvolti paradossali del mondo.

Queste dimensioni, lui, non è che te le insegnasse propriamente. Piuttosto, ti ci faceva entrare dentro.

Magari, prospettandoti anche l’eventualità di poter tradurre il latino direttamente in dialetto parmigiano.

E allora non c’era nulla di sorprendente se la fatidica frase di Orazio “est tibi mater?” (nella celeberrima satira dello scocciatore lungo la via Sacra), si mutava per incanto vernacolare nella “oltretorrentesca” espressione “Gh’èt tò mèdra?”, conservando così tra l’altro tutto il sapore popolare dell’originale.

Oppure sapeva introdurti nel fascino migliore della conoscenza, inoltrandosi come in una libera prateria, fra le sue meravigliose narrazioni dalla cattedra dedicate alle gesta dei fieri pellirosse americani, di cui era grande cultore ed esperto.

Col professor Tripodi, conoscere i grandi della storia e della letteratura equivaleva a venire introdotti nelle atmosfere di un film o di romanzo avvincente.

Giulio Cesare, Augusto, Machiavelli, Dante…erano questi i suoi pilastri di riferimento culturali e umani, pur senza mancare mai di ricordarci l’importanza di guardare alle vicende dell’uomo dal punto di vista dei più umili, che dalle sconfitte del vivere imparano a indossare la fondamentale corazza dell’ironia.

Per questo, pur conoscendo la Divina Commedia a memoria, era capace di dirti cose profondissime, anche solo citando qualche suo comico aneddoto di gioventù.

Come quando ricordava il bizzarro vezzo anni sessanta di recarsi al cinema con alcuni amici buontemponi, a vedere qualche polpettone mitologico con Maciste o Ercole a imperversare sul grande schermo.

Ecco allora che il professor Tripodi e la sua matta combriccola, si piazzavano in posizione strategica dietro a un gruppetto di altri ragazzi appena più giovani, e alla vista di quei forzuti dai muscoli di fecola intenti a fare volare massi immensi di cartapesta, badando di farsi ben sentire, “vitellonescamente” proclamavano: “Eh, mo l’è fòrt!!!”, fingendo la più genuina credulità.

E tutto per il gusto di sentire i vicini di poltrona, ribattere meravigliati fra di loro: “Che ràsa ad stùpid, chi lór…”. Per il gusto di far stonare la realtà ancora una volta, già così solita farci sentire anche troppo di frequente le sue stecche, di per se stessa…

Tanto che quando qualche alcuni anni dopo, uscì al cinema il pur bellissimo film “L’attimo fuggente”, quasi quasi non sapevo cosa farmene del professor Keating, avendo alle spalle un’esperienza scolastica di simile pregio umanistico-parmigiano.

Questo era il professor Tripodi: uomo di cultura sterminata, di impagabile, complessa umanità, e un instancabile indagatore delle contraddizioni dell’esistenza.

E ricordare oggi di aver fatto parte delle sue “truppe cammellate”, come amava definire i suoi studenti, è insieme motivo di orgoglio e di commozione. Uno di quei regali di valore che ogni tanto la vita fa, e per i quali anche la miglior parola di ringraziamento non riesce a rendere il senso della gratitudine provata.

Angelo Balocchi

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