La pandemia che ha fatto emergere le debolezze dei nostri sistemi. La società che cambia, sotto la lente d’ingrandimento della sociologa Maura Franchi. INTERVISTA

Il Covid 19, per molti aspetti, è stato ed è tuttora un evidenziatore. Pone al centro dell’attenzione le debolezze, sia nel corpo di miliardi di donne e uomini che nelle nostre comunità. Medici e scienziati hanno capito quasi subito che attacca i punti più fragili, non a caso ci è stato ripetuto che le persone più a rischio sono quelle con patologie preesistenti o gli anziani.
Lo stesso ha fatto alla nostra economia e alla nostra società, fungendo da acceleratore, mettendo in evidenza tante carenze. Quante volte abbiamo constatato che decenni di tagli alla sanità hanno portato al collasso di marzo? Con quanto ritardo è partita la didattica a distanza? E quanti bambini ne sono stati esclusi per la mancanza di device o di connessione? Quante imprese non ben strutturate hanno chiuso?

Abbiamo voluto mettere a fuoco i cambiamenti in atto con la sociologa, Maura Franchi, docente del nostro Ateneo, che assieme al collega economista Augusto Schianchi sta ultimando un volume dal titolo “Il tempo del Covid: lavoro, città, democrazia”. Lo studio affronta tre temi molto importanti in questo momento di cambiamento: lo smart working, le smart cities (come cambiano in relazione anche allo smart working) e come cambia la democrazia, i meccanismi decisionali.

Recentemente si è parlato sempre di più di “south working”, ovvero di persone di origine meridionale che, essendo in smart working, rientrano nelle abitazioni di origine. In questo modo al nord verrebbe a mancare una quota consistente di consumi che per contro si sposterebbe in meridione. Cosa ne pensa?

Se fosse così potremmo anche essere contenti, visto che anni di investimenti al sud non hanno prodotti grandi risultati. Però sinceramente non mi sembra così diffuso e forse è un fenomeno temporaneo che fa risparmiare sull’affitto. Quando si fa una scelta abitativa in un contesto la si fa per tante ragione; non credo che le persone pensino che d’ora in poi lavoreranno solo e sempre in smart working.

Ciò che si sta profilando è che questa pratica, che era totalmente sconosciuta in Italia con percentuali bassissime del 2-3%, adesso diventi una possibilità adattabile alle esigenze del lavoratore e dell’impresa. Ovviamente non sarà mai per tutti, perché dipende dai processi produttivi, alcuni lavori si possono fare solo in presenza. Su molte attività la possibilità che si stabilizzi, ad esempio, un giorno in meno la settimana è plausibile. Questo è un fatto interessante per la “flessibilizzazione” del lavoro.

Il nostro paese è pronto per questo?

Il paese ha dovuto adattarsi e cercare di affrontare la pandemia. E’ stato molto importante che le persone abbiano trovato la capacità di fronteggiare il Covid, anche mantenendo questa capacità di lavoro. Lo smart working pone però una serie di questioni. Per esempio non è scontato che tutte le persone abbiano gli strumenti adatti e in secondo luogo, le donne con figli hanno problemi in più. In un certo senso possono aumentare le diseguaglianze, come è successo per l’e-learning: non tutti avevano gli strumenti a casa per seguire le lezioni. Lo smart working si va diffondendo e credo sia positivo se è fatto in una certa misura. Ci sono tanti risparmi per esempio sui costi del trasporto. Se è un fatto episodico – un giorno a settimana – si può parlare di flessibilità se è un fatto quotidiano la flessibilità non c’è più, soprattutto se declinato al femminile.

Come è stato da sociologa analizzare un evento così unico come il lockdown? Come è cambiata la nostra società?

È stato molto interessante, capisci delle cose che c’erano già prima e interpreti fenomeni che non avevi visto. Per quanto riguarda le smart cities per esempio, che sono un tema di lungo periodo, abbiamo riflettuto sul fatto che una delle conseguenze dello smart working sarà quella di rimettere in questione le distribuzioni di negozi, ristoranti e bar. In centro i bar ristoranti che si occupano delle pause pranzo rischiano di sparire. C’è il problema della desertificazione per intere strade. Questi sono traumi sociali anche per una città fiorente come Parma. Oltre al discorso della pericolosità delle strade senza vetrine illuminate. Questi temi non sono destinati a sparire rapidamente. Non possiamo pensare che a gennaio saremo fuori da ogni problema.

Come sono cambiati i consumi?

I consumi sono già cambiati moltissimo ben prima del lockdown, da almeno tre anni. Le persone non erano più tanto interessate o comunque molto meno di un tempo, ai beni materiali per esempio l’abbigliamento. E invece avevano trasferito una quota consistente delle risorse in quelli che io chiamo “consumi di tempo”, come i viaggi, le cene nei ristoranti, gli aperitivi nei bar, il cinema. Questo cambiamento è visibile nelle città, in cui negli ultimi tempi hanno aperto soltanto bar e ristoranti. Contestualmente il lavoro più tradizionale è calato, se escludiamo il pubblico impiego. Il tema dunque era già presente: si utilizzavano le risorse per stare insieme piuttosto che per comprarsi cose. Si acquistavano beni immateriali per mettere al centro il tempo della socialità. Questo è stato trasversale fra le generazioni.

E ora, dopo il lockdown?

Questo è il problema, forse ora stiamo risparmiando. I consumi sono pesantemente influenzati dalla pandemia. Tengono bene i generi alimentari anche se proposti in altre forme: delivery, asporto, spesa direttamente a casa. I ristoranti anche se pieni con il problema del distanziamento hanno dimezzato i coperti.

Lei è esperta anche di social media, che ruolo hanno avuto in questo contesto?

Sempre di più i social media sono un ambiente di vita così quotidiano e naturale che ormai è totalmente intergenerazionale e interculturale. Mi impressiona molto sapere che i bambini di due anni sono in grado di trovare le cose preferite sugli smartphone. Non c’è dubbio che questo sia è il nostro linguaggio e lo sarà sempre più. Anche questo aspetto ha a che fare con il cambiamento delle città e quindi le smart cities: per sentirsi, vedersi, sia per lavoro che per piacere, il video ci aiuta. La chiacchierata con le amiche ormai si fa virtualmente su WhatsApp ed è una cosa” quasi vera” e a portata di tutti.

Gli anziani rischiano di essere sempre più isolati?

Dal punto di vista sociale, civile e politico avremmo dovuto occuparci di più di questo tema. Se la mettiamo sul piano ludico la videochiamata con i parenti è un conto, ma se pensiamo per esempio all’uso del fascicolo sanitario elettronico, la cosa cambia perché è una questione di cittadinanza. Io trovo molto grave che non ci si sia preoccupati dell’alfabetizzazione digitale delle persone anziane. Il tuo diritto non è solo andare a votare è anche accedere a tutto ciò che il tempo ti sta proponendo.

Tatiana Cogo

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