“Nome in codice: brutto anatroccolo”

26/02/2009

Brutta cosa l’imprinting: è proprio a causa di questa forma di apprendimento, studiata da Konrad Lorenz, che il piccolo (e brutto) anatroccolo del titolo, si trova a considerare padre un topastro di nome Ratso, impresario sciatto e pasticcione che cerca di sfruttarlo come freak per ottenere facili guadagni.
Ovviamente, dopo mille peripezie e ripensamenti, l’amor “paterno” avrà la meglio sul desiderio di arricchimento del roditore.
Il brutto anatroccolo è una fiaba danese di Hans Christian Andersen, pubblicata per la prima volta nel 1843: nonostante il senso della storia oggi possa essere considerato vagamente edonistico (nell’originale l’anatroccolo è in realtà un cigno e viene accettato solo quando ritrova la sua famiglia originale), il film di Michael Hegner non fa molto per aggiornarne il contesto e magari suggerire che nella vita bisogna andare oltre l’apparenza ed essere riconosciuti e apprezzati per quello che si fa e non per il proprio aspetto.
Detto ciò, gli spettatori si preparino all’ormai usuale serie di citazioni più o meno colte, gag simpatiche, personaggi decisamente fuori dai classici schemi “animaleschi” e qualche trovata un po’ grassa che potrebbe far inarcare il sopracciglio ai genitori più tradizionalisti.
Tecnicamente il film non convince appieno, e a lasciare perplessi sono il design, troppo spigoloso e poco amichevole, dei personaggi, e le animazioni degli stessi, non particolarmente elaborate. Siamo più dalle parti di Terkel che da quelle delle produzioni Pixar, e la differenza, anche da questo punto di vista, si nota. Film leggero, anzi: inconsistente

(Si ringrazia Mymovies.it per la collaborazione)
Clicca qui per conoscere la programmazione nelle sale di Parma.

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