INTERVISTA – Don Umberto Cocconi: “Parma è una città mai sazia”

Don Umberto Cocconi

Intervistare Don Umberto Cocconi non è semplice. Vieni travolto da una quantità di parole, pensieri e riflessioni che ti rendono subito evidente di essere davanti a una personalità parmigiana straordinariamente ricca. Quella con il parroco della chiesa di San Tommaso (nonché cappellano all’università di Parma, rettore di San Rocco e con molti altri incarichi diocesani) doveva essere un’intervista sulla povertà a Parma. Si è trasformata in un dialogo che ha aperto come una porta, idealmente collocata in via Farini, luogo dell’intervista, una visione della città e della società in cui viviamo.

Direi di iniziare con una domanda a bruciapelo: tanti anni fa l’allora arcivescovo di Bologna Card. Biffi definì la città di cui svolgeva il ministero come “sazia… ma disperata”. Una definizione che fece epoca. Tu come definiresti Parma?

Beh, senza dubbio definirei Parma come una città che non è mai sazia, ma proprio mai. Anzi, se mi è concesso una battuta, ne è prova che esistono diverse strade dedicate al food, come via Farini. E a volte scopro che Parma è proprio incontentabile, non sai come prenderla, perché vuole sempre qualcosa di nuovo. E’ sempre alla ricerca di novità. Lo si vede bene nei locali che spesso durano una stagione o due, poi si cerca sempre la novità che attira.

Lo si vede anche nella storia della città. Ho studiato il vescovo Turchi, che visse a fine ‘700, e la vita della città in quell’epoca: parla di una Parma sempre alla ricerca del nuovo. E tutto ciò che è nuovo lo prende.

In questo non c’è alcuna differenza tra la Parma di oggi e quella di trecento anni fa. Ed è una città che butta via, butta via tanto: eccetto quei miti che resistono, come Maria Luigia.

Quindi Parma città mai sazia, ma, continuando il paragone, disperata?

No, Parma non è disperata. Anzi, non ci pensa proprio alla disperazione. Si diverte. Se fosse disperata avrebbe fatto una riflessione sul proprio ruolo e un cammino di elaborazione di un disagio. Piuttosto è una città tranquilla, nel senso di non capace di cogliere le trasformazioni che pure ci sono nel profondo.
Vive su un livello che non coincide sempre con le cose più vere, più autentiche.

Ma esiste anche una Parma sotterranea, che opera nei meandri più nascosti? Fa paura questo lato nascosto?

Sì, esiste una città che non si vuole neanche vedere. Perché altrimenti dovrebbe mettersi in discussione e mettere, di conseguenza, in crisi le certezze che si è data. Certezze che non sempre sono reali.

Perché è l’immagine ciò che veramente caratterizza la nostra città. E tutto ciò aiuta ad adagiarsi come in una nicchia, o meglio, all’interno di una bolla di sicurezza. Per restare in tema col nostro territorio, si potrebbe usare la parafrasi degli “occhi foderati di prosciutto”.

Ma ci sono fermenti di novità, voci o esperienze profetiche che vanno oltre l’appiattimento, spine che danno fastidio, che ti portano davvero a cercare nuovi equilibri, che spingono verso nuovi cambiamenti.


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C’è voglia di cercare questi nuovi equilibri?

No, si vuole solo ritornare a una quiete. Magari apparente. Ora vedo unicamente questa voglia di trovare una nuova quiete, apparente, interiore.

Parma ha perso la speranza di fare qualcosa insieme. Noto una parcellizzazione. Ecco, se dovessi scattare una foto, vedrei una città con tanti campanili difficili da fare incontrare tra loro. Lo noto negli studenti stranieri o che vengono dal sud, ragazzi che non trovano inclusione sociale o, in una parola, “spazi”. Purtroppo l’inclusione sociale è difficile: ci sono cittadelle fortificate tirate su per difenderci dalla nostra paura di essere contaminati da queste presenze.

Oltre a questo, vedi anche una città etnica, più varia?

Certo, è una città più etnica di ieri. Nel nostro tessuto urbano, che è un territorio che richiama, ci sono 160 nazionalità. Manca qualcuno che ci ricordi e dica che siamo una fraternità, che questa diversità è una ricchezza.

Hai speranza che qualcosa, da questo punto di vista, possa cambiare?

Ho speranza. Vedo forze che ci stanno lavorando, reti e mani che si tendono e vogliono collaborare insieme. Anche se i tempi possono essere lunghi.

Questo può essere il tempo della semina. I frutti li raccoglieremo più avanti. Ecco, in questo 2023 possiamo sentirci chiamati a piantare questi semi.

Penso alle scuole come laboratori per un confronto fra diverse culture e tradizioni, anche religiose.

Ed è proprio nelle scuole che si può iniziare a superare i pregiudizi che spesso, o quasi sempre, sono solo nella testa. Mi piace usare questo slogan: “la mente, mente”, ti sei fatto dei giudizi ma questi giudizi si devono confrontare, o scontrare, con la realtà.

Serve un ritorno alla realtà per continuare una ricerca della verità.

Dicevamo all’inizio che la nostra è una città mai sazia…. ma non deve neanche esserlo di verità.

FINE PRIMA PARTE INTERVISTA

Simone Guernelli

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