Harris-Trump all’ultimo voto. “Ma all’Occidente serve ben altro” (di Lorenzo Lasagna)

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Caro Direttore,

scommetto che hai sempre desiderato un corrispondente da New York. Ebbene, finalmente oggi il tuo sogno si avvera. Eccolo qui, il tuo uomo sul campo: dalle nebbie di Paradigna ai grattacieli della Città che non dorme mai, nella congiuntura di almeno tre eventi di portata mondiale: la maratona più prestigiosa del pianeta, l’ultimo atto delle World Series di baseball che hanno visto sfidarsi le due città-simbolo dell’America (New York contro Los Angeles), e le elezioni presidenziali di martedì prossimo.

D’istinto comincerei col parlarti dei primi due, ma temo che i nostri venticinque lettori non gradirebbero. Passo dunque direttamente al punto che più ci riguarda, almeno come cittadini dell’Impero: lo showdown tra Kamala e Donald, giunto ormai al suo drammatico epilogo.

New York non è in bilico. Nell’America spaccata in due, tutta la costa nord-orientale, dal Maine alla Virginia, è saldamente colorata di blu (attenzione, qui i colori sono invertiti: blu sono i democratici e rossi i repubblicani). Ma il riverbero della contesa che si gioca voto su voto nei sette stati chiave (quelli che decideranno i giochi, primo tra tutti la Pennsylvania) si averte chiaramente anche nella compassata e liberale isola di Manhattan.

Come finirà, è impossibile dirlo. Da una quindicina di giorni la rimonta della Harris sembra essersi fermata, e Trump ha di nuovo un leggero vantaggio in tutti e sette i battleground states. Troppo poco per sbilanciarsi in una previsione: too close to call, come dicono da queste parti. A decidere sarà forse qualche riconteggio in sconosciute contee della Georgia o del North Carolina, chissà. Con code di tensioni politiche e giudiziarie non auspicabili… staremo a vedere.

Qualcosa però si può dire anche nell’attuale situazione di incertezza. Anzi, forse è meglio scriverla nero su bianco adesso, prima che lo spoglio esasperi ulteriormente il clima.

 

† Il mio incontro con Maria Maddalena a St. Maximin-la Sainte-Baume in Provenza (di Andrea Marsiletti)

 

Primo: onore al vecchio Joe. Il secondo mandato no: non era cosa. Ma ricordiamoci che Joe Biden chiude un quadriennio presidenziale tra i più turbolenti e critici dai tempi di Kennedy, Johnson e Nixon. E lo fa con alcuni importanti risultati all’attivo: un efficace contenimento della potenza cinese, buone performance economiche (inflazione in calo, mercati e occupazione in crescita) e un rinsaldamento dell’atlantismo davanti alla sfida lanciata dall’asse delle non-democrazie (teniamoci sull’eufemistico). Non occorre poi aver preso un diploma a West Point per capire che lo stallo della crisi ucraina è un mezzo miracolo. Quanto all’orribile carneficina mediorientale, credo che l’operato di Biden possa essere legittimamente criticato su un piano etico, ma dalle critiche non mi pare sia mai ancora lo straccio di una way-out anche solo vagamente plausibile. Non siamo negli anni novanta. Nell’attuale scenario multipolare, l’ordine mondiale costruito dal 1945 non esiste più, e anche l’ipocrisia di chi chiede agli Stati Uniti di agire come una nazione-impero (salvo poi contestare duramente la legittimità di questo ruolo) è da un pezzo arrivata al capolinea – anzi, all’autorimessa – della Storia. Dunque, per quanto mi riguarda, onore al vecchio Joe. Temo che lo rimpiangeremo presto, comunque vada il 5 ottobre.

Secondo: da candidati polarizzati a presidenti-clone. Nonostante quello che suggerisce il senso comune, il Presidente degli Stati Uniti non è un libero battitore. E’ l’ingranaggio di un complicato sistema di potere, con margini di movimento proprio abbastanza esigui. Al punto che da una contesa elettorale come l’attuale, tra le più duramente polarizzate di sempre, emergerà un/una Presidente eletto/a sostanzialmente identico alla sua alternativa. O forse qualcuno pensa che la Harris, una volta eletta, disarmerà Israele, e che favorirà l’immigrazione illegale, oppure che un vittorioso Trump consegnerà l’Ucraina a Putin, magari dopo aver sciolto la Nato e abbandonato l’Europa al suo destino? Su, andiamo. Sulla svolta green la candidata democratica sta già correggendo il tiro, mentre sull’aborto le memorie di Melania Trump sembrano quasi voler preparare il terreno a una svolta pragmatica del marito. In breve, chiunque prevalga, non potrà certo imprimere sconvolgimenti al quadro esistente.

Terzo: all’Occidente serve ben altro. La competizione in atto mette a confronto un campione del sovranismo di destra con marcati tratti eversivi, e la (scialba) esponente dell’ala sinistra di un partito democratico impregnato di radicalismo ideologico e ossessioni woke che rasentano il maccartismo (sì, lo so, il Senatore stava a destra. Tant’è). In altri tempi il declino dell’Occidente è stato una cosa seria, oggi non lo è più. E’- ahinoi – una farsa poco divertente. Una cosa dunque è certa: qualsiasi ragionamento sul ruolo che le democrazie liberali dovranno giocare nel nuovo scenario mondiale, impone opzioni che vadano oltre le paranoie fascistoidi del movimento MAGA da una parte, e le miserie del khomeinismo woke dall’altra.

 

† E se Dio fosse un algoritmo? I cyber-profeti della Singolarità tecnologica (di Lorenzo Lasagna)

 

Ho scritto banali ovvietà, Direttore? Può darsi, ma di questi tempi bisogna sapersi accontentare. Anche se ne fossimo capaci, analisi troppo raffinate rischierebbero di eccedere la brutale semplicità dei fatti cui assistiamo. Martedì commenteremo qualcosa di meno ovvio: l’elezione del nuovo Presidente degli Stati Uniti. Oltre naturalmente ai tempi della maratona e al vincitore delle World Series. Ti prego perciò di restare sintonizzato. Con immutata stima

il tuo corrispondente da New York,

Lorenzo Lasagna