Verso il “People Management”: le grandi dimissioni, i nuovi adulti e l’economia cattolica (di Massimo Scaccaglia)

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Da una discussione tra amici sul grande tema del lavoro, Massimo Scaccaglia, referente amministrativo di alcune realtà socio-assistenziali in Parma, se ne era uscito citando una pubblicazione con dei numeri che mi avevano colpito e gli ho chiesto se poteva scriverci qualcosa per Parmadaily.

Mi ha accontentato e pubblico con piacere questo che doveva essere un articolo, ma che alla fine è diventato, per forza di cose, quasi un saggio brevissimo.

Buona lettura. Andrea Marsiletti

“Quando eravamo da voi vi abbiamo sempre imposto questa regola: chi non vuole lavorare, neppure mangi!” (2 Tessalonicesi 3,10)

Era la seconda metà degli anni 90 quando per la mia tesi di laurea iniziai a tradurre articoli dalla Harvard Business Review.

La gestione delle risorse umane era in pieno fermento e la parola sulla bocca di tutti era “re-engineering”. La distanza tra il boom economico degli anni 80 e la crisi dei subprime del 2006 si stava assottigliando, e si iniziava a ragionare di “ottimizzazione”.

Da allora ho potuto osservare l’imprenditoria a stampo famigliare, lo spoil system politico negli enti pubblici, il modello cooperativistico emiliano e la managerialità dei gruppi internazionali.

Modalità totalmente divergenti nella gestione delle “risorse umane” come se fossero mondi inconciliabili; eppure, che ci piaccia o no, il tema sarà sempre dominante perché la “risorsa” in questione è la persona in tutta la sua complessità e centralità.

Negli ultimi anni le Human Resources sono tornate con prepotenza a calcare i palcoscenici del pubblico dibattito, subendo un’impennata mediatica a causa degli effetti, in primis psicologici, del Codiv-19.

A distanza di decenni sono ancora qui a tradurre un articolo della Harvard Business Review per chiarire le tendenze in atto, collocando di fianco alle loro preziose osservazioni alcune realtà più o meno emergenti e sorprendentemente concomitanti e attinenti: la teoria dei Nuovi Adulti e una “terza via” economica di matrice cattolica.

Non è un caso se sempre più aziende stanno facendo urgentemente restyling spinte dalla carenza di figure professionali adeguate a sostenere il proprio sviluppo. Stanno accantonando il freddo acronimo HR con tutto il bagaglio di inadeguatezza che si porta dietro, per passare al più empatico “People Management”, la cui filosofia sottostante cresce misurandosi con le consolidate tendenze di lungo termine che stanno delineando un futuro inaspettato per il mondo del lavoro.



1) Le Grandi Dimissioni: un fenomeno di lungo termine.

Nel 2021, secondo il Bureau of Labor Statistics (BLS), negli Stati Uniti oltre 47 milioni di americani hanno lasciato volontariamente il lavoro: un’uscita di massa senza precedenti dal mondo produttivo, un fenomeno mai visto prima, che ora viene ampiamente chiamato come le Grandi Dimissioni o la Grande Rinuncia (Great Resignation).

La carenza di lavoratori è evidente ovunque: sia le stazioni di servizio che gli uffici dei dentisti hanno ridotto l’orario di lavoro perché non riescono a trovare nuovi dipendenti per sostituire quelli che si sono licenziati. Le Grandi Dimissioni, ci dicono, hanno stravolto il rapporto tra lavoratori e mercato del lavoro.

Ma facciamo attenzione a non abboccare alla trappola delle apparenti concause! Chi mastica di statistica teme una “correlazione spuria” più di una seduta dal dentista.

Ovvero cose che sembrano imparentate alla fine non lo sono, o non come crederemmo a prima vista.

Negli Stati Uniti un numero record di lavoratori ha lasciato il lavoro nel 2021, è vero. Ed è osservabile che si tratta di fenomeno che, pur con diverse modalità di coniugazione, si sta diffondendo con modalità virali nelle economie occidentali, rendendo sensata la sua esposizione con un occhio rivolto all’Italia e all’Europa in generale.

Tuttavia, il vero dato sorprendente è che collocando questo fenomeno nel contesto dell’occupazione statunitense degli ultimi dodici anni, si può vedere che non è solo una turbolenza a breve termine provocata dalla pandemia, ma piuttosto la continuazione di una tendenza a lungo termine: i numeri non mentono mai.

Dal 2009 al 2019 infatti, il tasso medio mensile di abbandono è aumentato dello 0,10% ogni singolo anno. Solo nel 2020, a causa dell’incertezza causata dalla pandemia di Covid-19, il tasso di dimissioni è rallentato poiché i lavoratori hanno voluto mantenere il posto di lavoro in numero maggiore. Quella pausa fu di breve durata: nel 2021, grazie anche a misure provvisorie di sostegno al reddito del governo americano e soprattutto quando parte dell’incertezza post covid si è attenuata, un numero record di lavoratori ha lasciato il lavoro, creando le cosiddette Grandi Dimissioni. Ma quel numero includeva molti lavoratori che avrebbero potuto o voluto dimettersi già nel 2020 se non ci fosse stata la pandemia. Ora si è di nuovo in linea con la tendenza pre-pandemia, che è quella con cui i datori di lavoro americani dovranno probabilmente confrontarsi negli anni a venire.

In Italia, parallelamente, assistiamo alla complessità della discussione in corso sugli effetti del RdC verso la disponibilità di manodopera a basso/medio reddito, soprattutto stagionale.

Un poliedro che ha bisogno di essere osservato da angolazioni diverse e per contribuire a dirimere questa complessità l’Università di Harvard in un articolo del marzo 2022 isola chirurgicamente i cinque fenomeni che stanno delineando con prepotenza nel mercato del lavoro di oggi, aiutando ad inquadrare possibili linee di contrasto.

Col tipico gusto americano per le esposizioni di immediata memorizzazione questi fattori sono stati chiamati le 5 R: Retirement (pensionamento), Relocation (trasferimento), Reconsideration (riconsiderazione), Reshuffling (rimpasto) e Reluctance (riluttanza).

I lavoratori quindi vanno in pensione in numero maggiore, ma non si trasferiscono in gran numero; stanno riconsiderando il loro equilibrio esistenziale tra lavoro, vita privata e ruoli di cura; stanno effettuando passaggi localizzati tra aziende diverse, oppure rimescolando(si) piuttosto che uscire completamente dal mercato del lavoro; e, sempre meno visto il dissiparsi dei timori legati alla pandemia, stanno dimostrando riluttanza a tornare al lavoro di persona (l’articolo è di inizi 2022).

Ognuno di questi fattori ha contribuito alla Grande Rinuncia e ci aiuta ad acquisire un’utile comprensione delle forze che stanno modellando il comportamento dei lavoratori oggi e per il prossimo futuro.

a) Retirement: pensionamento.

Studi accademici e sondaggi online allo stesso modo hanno costantemente scoperto che la Grande Rinuncia potrebbe essere meglio considerata come il Grande Ritiro (retirement).

Nel 2021, i lavoratori più anziani hanno lasciato il lavoro a un ritmo accelerato, e lo hanno fatto in età più giovane rispetto al passato. Hanno preso questa decisione spinti principalmente dal desiderio di trascorrere più tempo con i propri cari e di concentrarsi su priorità oltre il lavoro; i mercati azionari in forte rialzo e la vivacità del mercato degli immobili residenziali ha agevolato il passaggio; senza contare che, ahinoi, anche una significativa popolazione di anziani se n’è andata a causa della loro maggiore suscettibilità ai gravi rischi per la salute del Covid.

E detto tra parentesi questo modello è molto diverso rispetto a quello generato dall’ultima grande crisi tra il 2007 e il 2009: se una quindicina di anni fa ci fu un aumento dell’1,0% della partecipazione alla forza lavoro tra i lavoratori di età pari o superiore a 55 anni, durante questa Grande Dimissione vi è stato un calo dell’1,9%.

b) Relocation: trasferimento.

Le storie di lavoratori altamente qualificati che abbandonano la Bay Area a favore di resort panoramici nelle Montagne Rocciose costituiscono articoli interessanti, ma il trasferimento non ha avuto un ruolo concreto nella Grande Rinuncia. Il tasso di movimento complessivo nel 2021 è stato il più basso mai registrato da oltre 70 anni. I tassi di delocalizzazione sono in costante calo dagli anni ’80 e il Covid non ha invertito questa tendenza. Inoltre le persone che si sono trasferite in modo sproporzionato sono rimaste all’interno della propria contea di residenza, che è la forma di delocalizzazione più frequente; il trasferimento in uno stato diverso è rimasto il meno frequente.

c) Reconsideration: riconsiderazione.

E’ la parte più delicata, influente e difficile da gestire. È il nodo centrale della questione: gli osservatori hanno suggerito che i numerosi decessi e i casi di malattie gravi causati dalla pandemia hanno indotto le persone a riconsiderare il ruolo del lavoro nella loro vita. Seriamente.

È probabile che questo cambiamento di prospettiva abbia motivato alcuni lavoratori a dimettersi, in particolare quelli che si stavano esaurendo in lavori impegnativi che interferivano con la loro capacità di prendersi cura delle proprie famiglie. Le donne sono state colpite più degli uomini e dei gruppi di età più giovane, più di quelli più anziani.

Il burnout ha colpito in particolare 4 categorie: operatori di front-office, i genitori, gli operatori sanitari e i leader organizzativi.

Il turnover è una conseguenza naturale.

Poiché gli obblighi di assistenza ricadono in modo sproporzionato sulle donne, settori come l’ospitalità, in cui le donne costituiscono la maggioranza dei lavoratori orari, hanno registrato un numero maggiore di dimissioni. L’importante rapporto Women in the Workplace (McKinsey&Company) del 2021 ha rilevato che una donna su tre sta valutando la possibilità di lasciare il posto di lavoro, cambiare lavoro o ridurre l’orario di lavoro. Questa è spesso una scelta obbligata: molte donne non hanno altra scelta che andarsene per far fronte agli obblighi di assistenza.

Nelle industrie dei colletti bianchi, come la consulenza e la finanza, anche il personale junior ha sperimentato livelli notevoli di burnout. Tali settori hanno vissuto un forte incremento della domanda durante la pandemia, costringendo il nuovo personale a lavorare molto duramente senza beneficiare della formazione, del tutoraggio e dell’interazione con i clienti che in precedenza rendevano tali lavori gratificanti. Quelle esperienze potrebbero aver cambiato la tolleranza dei giovani lavoratori nei confronti delle esigenze di tali ambienti di lavoro.

d) Reshuffling: rimescolamento.

Bharat Ramamurti, vicedirettore del Consiglio Economico Nazionale, ha recentemente coniato l’espressione “Grande aggiornamento” per riferirsi al modello di tassi di abbandono più elevati nelle industrie a basso salario. I servizi di alloggio e ristorazione, del tempo libero e dell’ospitalità hanno registrato i tassi di abbandono più elevati; mentre il commercio al dettaglio e la produzione di beni non durevoli hanno registrato la più alta crescita di questi tassi. Tali picchi di abbandono non si sono limitati alle industrie con un’ampia percentuale di lavoratori a basso salario, ma hanno colpito anche le professioni.

Ma non tutti questi lavoratori lasciano il mercato del lavoro. Ci sono prove che molti si stanno “rimescolando”, cioè spostandosi tra diversi lavori soprattutto nello stesso settore. Secondo un’analisi dei dati BLS condotta dall’Economic Policy Institute nel novembre del 2021, i tassi di assunzione stanno superando i tassi di cessazione in molti settori, il che suggerisce che l’elevata crescita salariale sta attirando nuovi candidati per posizioni aperte e che molti lavoratori siano disposti ad accettare lavori sufficientemente attraenti.

Avendo riconosciuto questo, alcune aziende stanno agendo. Un’analisi della Brookings Institution ha rivelato che i datori di lavoro nei settori con i più alti tassi di licenziamento hanno risposto aumentando drasticamente i salari nel tentativo di ricostruire il proprio personale. Nel 2021, McDonald’s ha aumentato la paga oraria per i dipendenti attuali in media del 10% e ha aumentato la paga oraria tra $ 11 e $ 17 l’ora. L’azienda ha anche migliorato i suoi pacchetti di benefici (tra cui assistenza all’infanzia, permessi retribuiti e rimborso delle tasse scolastiche). Di conseguenza, ha ampliato con successo il proprio organico nel 2021, chiudendo l’anno con livelli di personale più elevati rispetto all’inizio. Allo stesso tempo, Walmart ha annunciato il programma Live Better U da 1 miliardo di dollari, che nei prossimi cinque anni pagherà il 100% del costo delle tasse universitarie e dei libri per i soci dell’azienda. Tale investimento, spera l’azienda, non solo attirerà i lavoratori, ma migliorerà la fidelizzazione.

e) Reluctance: riluttanza.

Agli inizi del 2022 la paura di contrarre il Covid sul posto di lavoro rese molti lavoratori restii a tornare in ufficio. In un sondaggio del Pew Research Center condotto su 5.858 adulti lavoratori, il 64% dei lavoratori riferì di sentirsi a disagio nel tornare in ufficio e il 57% di aver scelto di lavorare da casa a causa della preoccupazione per l’esposizione a Covid. La ricerca riportata nella Harvard Business Review indicava che molti lavoratori erano disposti a licenziarsi se il loro datore di lavoro non avesse offerto un’opzione di lavoro ibrido: in un sondaggio condotto su oltre 10.000 americani nell’estate del 2021, il 36% dei lavoratori affermò che se non fosse stata fornita un’opzione ibrida o remota, avrebbero cercato un’alternativa e il 6% di essere disposto a dimettersi definitivamente, anche senza una nuova posizione in mano.

I dati del 2023 vanno nella direzione di un affrancamento da questi timori e la direzione sembra quella dell’uscita da questa forma di riluttanza.

Per concludere l’Università di Harvard afferma che La Grande Rinuncia non è apparsa dal nulla, è stata una conseguenza naturale delle 5 R: pensionamento, trasferimento, riconsiderazione, rimpasto e riluttanza. I decisori aziendali trarranno vantaggio dalla comprensione di questi fattori, di come stiano contribuendo al turnover nelle loro organizzazioni. Potranno sviluppare risposte specifiche per arginare tale marea mentre il Covid si sta normalizzando, evolvendosi da pandemia a malattia endemica, e mantenere una forza lavoro stabile e competitiva. Allo stesso modo, le aziende che dimostrano un impegno a migliorare le prospettive di carriera a lungo termine dei propri dipendenti offrendo formazione e rimborsi per le tasse scolastiche otterranno una maggiore lealtà e guadagneranno in attrattività verso i potenziali dipendenti. La Grande Rinuncia non era un’anomalia e le forze sottostanti sono qui per restare.

2) I “Giovani Adulti” e i nuovi modelli di conciliazione vita/lavoro.

Nei primi mesi del 2023 le classifiche della saggistica videro la costante presenza della psicologa Dott.ssa Stefania Andreoli con “Perfetti o Felici”, libro oggetto di un’ondata mediatica di apparizioni tv, interazioni instagram e di un podcast di successo dal titolo “Essere Grandi – Perfetti o Felici”.

La carriera della Dottoressa Andreoli si è focalizzata sul rilevare, analizzare e dare risposte alla generazione, sempre più allargata, dei Giovani Adulti: qui definiti come coloro che dai 20 ai 35 anni (anche 40) sono impegnati, consapevolmente o meno, nella costante ricerca di un nuovo senso esistenziale, distaccandosi dai modelli orientati al “successo” e imposti dalla precedente cultura lavorativa, famigliare e sociale.

Il numeroso materiale prodotto evidenzia che la ricerca dell’autenticità, di una maggiore pienezza personale, appare come tendenza prevalente, accantonando quella della produttività o dell’efficienza votata alla realizzazione lavorativo-economica.

Centinaia di interventi, testimonianze e condivisione di esperienze che rivelano un potente substrato in fermento, una nuova attitudine nel considerare il lavoro: non più come fonte di realizzazione, spesso modellato da meccanismi ritenuti egotici, bensì come strumento tarato per consentire la cura dei propri cari e la ricerca di un proprio “tempo perduto” quasi proustianamente concepito.

Una generazione sempre più allargata che risponde sempre peggio alle dinamiche precedenti e i cui ragionamenti sembrano incarnarsi nelle tendenze di lungo periodo di “riconsiderazione” e “rimescolamento” che l’esposizione della Harvard Business Review individua come cause a lungo termine della Grande Rinuncia.

Dal racconto che ne emerge pare essere in atto la focalizzazione sulle forzature dei precedenti modelli educativo-culturali da parte di una nuova generazione che ha osservato nel tempo piccole o grandi distorsioni negli ambienti familiari e di lavoro, traendone come una sorta di missione interiore: quella di cambiare le regole del gioco, per adattarle ad una ritrovata umanità.

Ammetto di aver pensato di essere caduto nella classica “correlazione spuria”.

L’aver voluto accostare il fenomeno di lungo termine delle Grandi Dimissioni e il fermento valoriale dei Giovani Adulti è innanzitutto esposizione di fenomeni concomitanti, un invito all’osservazione simultanea: ma i punti in comune sembrano essere tanti, e il sospetto di un rapporto causa-effetto è sicuramente da approfondire, anche se questa non può essere la sede.

E per amor di completezza occorre evidenziare che la Dottoressa Andreoli viene spesso accusata di essere eccessivamente (mediaticamente) accondiscendente con questa generazione allargata, di essere scarsamente incisiva nel lavoro di accompagnamento verso l’uscita da zone di immaturità, di mancata crescita. Altrettanto certi sono i numeri alla base di questo fenomeno, che non credo si possa liquidare come astuta operazione di marketing, bensì fondato su istanze che emergono come concrete e urgenti, orientate verso una maggior empatia in ogni tipo di rapporto.

Aggiornamento lavorativo, costante formazione, conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, carichi di lavoro meno stressanti, orari elastici, welfare aziendale sono tutte istanze sempre più desiderate da parte dei lavoratori, più allettanti spesso rispetto alla “carriera” tout court e che rivelano quanto la mentalità dei Giovani Adulti, come rappresentata dagli studi della Andreoli, sia sempre più pervasiva e i rischi di sottovalutarla insidiosi per le politiche aziendali.

3) La scuola dell’Economia Civile e il People Management come strumenti per affrontare l’epoca delle multi-crisi;

Ho la sensazione, e credo sia sempre più diffusa, che l’economia non possa più esimersi dal confronto con temi come il ripensamento dell’organizzazione del personale, l’impatto della finanza sulla vita dei cittadini, le forme di welfare e la sostenibilità sociale. Confronto fisiologicamente necessario, non più come possibilità di libera adesione a principi morali, bensì legato a doppia mandata alla prosperità stessa dell’azienda a medio e lungo termine. E nemmeno più tali principi possono essere relegati al Terzo Settore, se negli Stati Uniti colossi del capitalismo liberale come Walmart e McDonald’s hanno adottato politiche di aumento salariale e welfare è stato in primis per motivi di politica aziendale tout court.

In Italia l’eco suscitata dall’omelia del Cardinal Delpini al funerale di Silvio Berlusconi ha ridato vita su molte testate al dialogo circa le fondamenta cristiane nell’economia odierna ed è tornata in primo piano l’esempio della scuola dell’Economia Civile, il cui nome di punta è il professor Stefano Zamagni, studiato, seguito e impegnato concretamente da decenni, di recente nominato Presidente della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali.

Una scuola ben radicata che si impegna da sempre per diffondere un’economia di mercato che raccolga al suo interno elementi di reciprocità e di creazione della fiducia come catalizzatori.

Un modello concomitante, ma alternativo a quello puramente capitalistico, il quale sia esso di matrice liberista o fondato sull’etica protestante, è portatore della visione “smithiana” di mercato, che contiene certamente civiltà, ma di sicuro non elementi di reciprocità: in Adam Smith il bene economico totale è la somma dei livelli di benessere individuali, mentre nella visione economica civile ne è il prodotto, per cui l’azzeramento dell’utilità di qualsiasi degli attori socio-economici, produce l’azzeramento del bene comune desiderato.

In un periodo di oggettiva e diffusa difficoltà nell’applicazione di adeguate politiche socialdemocratiche, quella dell’economia civile si presenta come una visione “di mercato” più allenata ad affrontare la situazione odierna, non di rado definita come di “multicrisi” per cui le criticità sono complesse e dalle origini multiple tra loro finemente correlate, geo-politicamente estese e non attribuibili soltanto a settori o ad eventi singoli.

Ma quali sono le caratteristiche delle realtà imprenditoriali che si sforzano di mettere in pratica la Dottrina Sociale della Chiesa?

Premesso che non può essere questa la sede per l’approfondimento di tale Dottrina, ma di certo è teoria e pratica che si distanzia in modo eguale dal capitalismo di area tedesca, di matrice protestante, in cui l’accumulazione del capitale è sinonimo di benedizione divina e dal capitalismo utilitaristico anglosassone, in cui il “prossimo” è da guardare giocoforza con diffidenza.

Al contempo viene esteso il concetto base di capitale, quello in cui etimologicamente l’aumento dei “capi” di bestiame era la modalità riproduttiva naturale e speculativa per aumentare la propria ricchezza: i cambiamenti del tessuto socio-economico hanno chiarito quanto il capitale, di per sé, abbia perso il fascino illusorio della rigenerazione spontanea; piuttosto esso si mostra sempre più dipendente delle cure di una fila multiforme di attori economici e sociali, una filiera la cui complessità si estende quanto quella delle comunità globalizzate la cui opera quotidiana deve inserirsi in un contesto di vita allargato, che ha come perno soggetti immersi in mille fatiche e interazioni quotidiane.

Negli anni ’60, quelli del boom economico, la direzione del personale si concentrava fondamentalmente sulle tecniche di gestione quali l’esame dei curriculum, la descrizione delle posizioni, la valutazione delle performances, vedendo il lavoratore o l’impiegato quale elemento statico, oggetto di doveri e oneri, come da ragionamento di matrice anglosassone.

La sindacalizzazione e le modifiche relative nei rapporti di potere, la ristrutturazione industriale trainata dall’informatica negli anni ’80, la globalizzazione e le crisi finanziarie, la pandemia da Covid-19 e la guerra in Ucraina: alla luce di 50 anni di eventi fortemente impattanti il classico settore HR deve cambiare, ha cambiato, sta cambiando forma e sostanza.

Tutte le antenne sono puntate, in modo deciso, verso il “People Management” il cui approccio teorico e pratico cerca un equilibrio dinamico tra la centralità delle persone e il business stesso, ribadendo quanto il successo o l’insuccesso di un’azienda siano in fin dei conti, il successo o l’insuccesso delle persone che ne fanno parte.

Concetti che non sono assolutamente una novità per il cristianesimo, il quale fin dai suoi inizi ha spostato, antropologicamente parlando, l’asse del mondo verso la persona, verso la sua centralità rispetto ai sistemi organizzati: vi è un rapporto e una responsabilità personale verso Dio, e una soggettività che è centrale nel modellare i rapporti sociali, perché tutto sia a misura dell’uomo creaturale, fatto “a immagine e somiglianza”.

Dal monachesimo cristiano nato nel 300 d.c. per cui un individuo si mette da solo (monos) in cerca di Dio, al monachesimo benedettino come crogiolo e modello di interazione e integrazione fra individuo e società, fra comunità orante e comunità lavorante: fino all’ascesa della borghesia che nasce dalla coscienza del sé economico libero e indipendente, unitasi in corporazioni, in contrasto con i diritti dinastici dell’aristocrazia.

Il secondo millennio si è affacciato alzando drasticamente il livello delle sfide in gioco, dei pericoli insiti nel nostro sviluppo: dalla medicina alla tecnologia, dall’ambiente alla distribuzione della ricchezza tramite il lavoro.

Sfide il cui esito non si gioca nel campo della tecnica o dei tecnicismi, di qualsiasi natura essi siano, ma sul campo dei valori, ovvero sul campo dell’etica e della morale: in definitiva sull’Uomo, su ciò che noi stessi vogliamo che esso sia.

Massimo Scaccaglia