Il Graal del civismo non è più nelle mani di nessuno, segno di una Parma che è cambiata (di Lorenzo Lasagna)

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Lorenzo Lasagna

Caro Direttore,

la tua recente riflessione sulla fine del civismo a Parma (leggi: Anatomia della fine del civismo a Parma – di Andrea Marsiletti) merita senz’altro qualche commento.

Anzitutto, sulla tesi di fondo che proponi.

Ho sempre sostenuto che la vittoria di Guerra alle elezioni di luglio abbia concluso la fase dell’anomalia civica parmigiana e re-incardinato la città nel sistema di governo/potere nella quale era inscritta prima della grande rottura avvenuta nel 1998 con l’affermazione di Elvio Ubaldi. Vero è quanto scrivi tu, e cioè che il graal del civismo non è più nelle mani di nessuno degli oppositori di Guerra, e la sua sparizione ha tutta l’aria di essere un fatto irrevocabile. La cosa che non hai voluto spiegarci (mancanza che ha reso il tuo articolo se possibile ancor più drammatico), sono le ragioni di questo fatto: cosa ha determinato il tramonto del civismo, l’esaurimento (per dirla con Berlinguer, si parva licet) della sua “spinta propulsiva”?

Sarei sciocco (e presuntuoso) se ti dicessi di conoscere la risposta. Ma a differenza tua cercherò di non sottrarmi all’ingrato compito, avanzando alcune ipotesi.

La prima, che lega fine la fine del civismo ad una crisi di leadership, è quella mi convince meno. Come ho già scritto su Parmadaily, la favola dei due civismi (Obi-Wan Ubaldi e Darth Vignali) è una comoda semplificazione retrospettiva. Sino al contraccolpo delle inchieste e degli arresti, Vignali rappresentava agli occhi della città (anche se non a quelli del suo mentore e predecessore) la fase 2 del laboratorio ubaldiano, e ciò in termini di consenso, di base elettorale e di agenda amministrativa. Pizzarotti, dopo di lui, poteva non piacere (il mio giudizio a riguardo è ben noto), ma aveva indubbiamente trovato un suo stile di leadership: naif, certo, e però assolutamente efficace (Ubaldi e Vignali avrebbero dato un braccio per poter godere della sua esposizione sui media nazionali). Orbene, Vignali e Pizzarotti sono ancora sulla scena politica, così come è tuttora attivo il marchio storico del civismo parmigiano guidato da Elvio Ubaldi. Il punto non sembra quindi l’assenza di carisma, di bandiere o di leader. Semmai, come si diceva un tempo, il problema è politico.

La seconda ipotesi, quasi hegeliana, è che il civismo sia tramontato in quanto ha esaurito la propria funzione. Non serve più poiché la politica tradizionale, quella dei partiti e delle coalizioni, ha ripreso la sua marcia.

La terza ipotesi, più malinconica (ma forse sono io che sto invecchiando), è che ad essere cambiata sia Parma. Non vorrei fornire letture moralistiche, e dunque non dirò che è cambiata in peggio. Diciamo che è mutata – marxianamente – la struttura dei suoi rapporti socio-economici. Il crac Parmalat, la crisi politico-amministrativa del 2011, la mancata rivoluzione pizzarottiana, la cessione ad altri territori e ad altri soggetti di larghi segmenti della governance locale a livello finanziario, economico, culturale e persino sportivo, non potevano non concludersi con l’abbandono della peculiare visione politica (il civismo, appunto) che era il correlato naturale del protagonismo orgogliosamente rivendicato dalla nostra città.

Vorrei però aggiungere un ultima osservazione, e cioè che la fine di un progetto politico spesso non significa il suo annientamento, ma la sua prosecuzione in altre forme. Quella che altrove ho definito la diaspora del civismo (leggi) continuerà probabilmente a condizionare la politica locale anche nei prossimi anni. Senza poter ambire al recupero della centralità perduta, ma senza per questo lasciarsi ridurre all’irrilevanza.

Lorenzo Lasagna

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