† “Né maschio né femmina, noi tutti siamo uno in Cristo”. Le religioni superino le differenze di genere (di Francesca Saccani)

Francesca Saccani

TeoDaily – La questione della teologia femminista è oggi più necessaria che mai: dalla mainstream Michela Murgia alle attività accademiche del Coordinamento delle Teologhe Italiane, dalla grandissima eco con cui risuonano in tutto il mondo iniziative spirituali aconfessionali di risveglio del sacro femminile, come il World Womb Blessing, al risveglio globale della consapevolezza della parità di genere che sembra essere riuscita a far breccia anche in Italia, dove quest’anno per la prima volta nella storia della Repubblica sia la Presidente del Consiglio sia la Segretaria del partito di opposizione sono donne, tutti questi movimenti gestazionali rendono urgente un dibattito pubblico sul femminile che coinvolga anche la religione.

Certamente nel corso della storia il femminile è stato esiliato: l’ascolto, la morbidezza, il dialogo, la cura, la connessione, la cooperazione, l’affidarsi agli altri, la capacità sentire al di là dell’evidenza materiale non sono capacità che la società industrializzata e capitalista ha valorizzato, anzi, il femminile è stato vilipeso, massacrato, offeso, stuprato, nascosto, punito, maledetto e incriminato. Non parlo delle donne, o almeno, non solo di loro, ma più in generale di quel femminile che fa parte di ognuno di noi.

Certamente le religioni abramitiche (ebraismo, cristianesimo e islam) hanno contribuito in modo decisivo a quest’esilio, relegando il femminile e le donne fuori dal Tempio, sia spiritualmente che fisicamente. I matronei, i soppalchi in cui sia in sinagoga che in chiesa venivano relegate le donne, e la separazione dei sessi all’interno delle moschee ne sono la prova tangibile, simbolica e inequivocabile, senza andare a scomodare l’attualissima questione dell’impossibilità del sacerdozio femminile nella Chiesa cattolica, ormai appesa ad un sottilissimo filo che basterebbe una lettura onesta della Lettera ai Galati di San Paolo per spezzare.

San Paolo si rivolge alla comunità Galata invocando la fede in Cristo come compimento e insieme superamento della Legge mosaica: non è più necessaria la circoncisione, perché la fede ti rende seguace di Cristo, non l’osservazione pedissequa della legge:

Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge, essendo divenuto maledizione per noi (poiché sta scritto: «Maledetto chiunque è appeso al legno») […] Ma ora che la fede è venuta, non siamo più sotto precettore; perché siete tutti figli di Dio per la fede in Cristo Gesù. Infatti voi tutti che siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è qui né Giudeo né Greco; non c’è né schiavo né libero; non c’è né maschio né femmina; perché voi tutti siete uno in Cristo Gesù.” (Galati 3,13 . 25-28)

“Né schiavo né libero.”

Queste parole – quando sono state ascoltate – sono risuonate nella storia con una potenza formidabile, liberando fisicamente interi popoli dalla schiavitù e dall’oppressione, dalla progressiva scomparsa della schiavitù nell’Impero Romano alle più contemporanee teologie della liberazione in Sud America fino alle lotte di M.L. King negli Stati Uniti per l’emancipazione dei cittadini afroamericani.

“Né maschio né femmina.”

Che ne è di queste parole? Non si tratta solo del riconoscimento della legittimità del sacerdozio femminile per la Chiesa cattolica, ma è una questione molto più ampia, che riguarda la legittimità di ognuno di noi di esprimere il nostro lato maschile e femminile, al di là delle caratteristiche fisiche con cui siamo natə.

Fin da tempi ancestrali gli antichi miti cosmogonici parlano di un essere androgino perfetto che viveva in armonia con Dio e il creato.

Il Ṛgveda – testo sacro induista – narra di un embrione dorato da cui Dio dà vita a se stesso e a una creatura cosmica maschile da cui nasce il principio creatore femminile.

Lo stesso schema narrativo che troviamo nella Bibbia nel secondo mito cosmogonico della Genesi, dove Eva viene plasmata dalla costola di Adamo.

Fin dagli albori della civiltà l’origine del mondo, l’espressione di Dio, dell’amore di Dio, di Dio Amore che crea l’Universo, è espressa col dinamismo tra maschile e femminile, magistralmente sintetizzato dalla civiltà cinese nel simbolo del TAO. Nella più antica ed estesa delle Upanishad vediche, la BRHADARANYAKA, la primordiale creatura cosmica “occupava tanto spazio quanto un uomo e una donna abbracciati”.

Dalla sua separazione nacque la stirpe umana.


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Esattamente come narrato nel Simposio di Platone: “Dopo che la natura umana fu divisa in due parti, ogni metà per desiderio dell’altra tentava di entrare in congiunzione e cingendosi con le braccia e stringendosi l’un l’altra […] Questo è il motivo per il quale la nostra natura antica era così e noi eravamo tutti interi: e il nome d’amore dunque è dato per il desiderio e l’aspirazione all’intero”. (Simposio 192e)

La sapienza delle religioni sembra dunque suggerirci una via di integrazione tra maschile e femminile, un superamento della divisione nella fede in Dio, un superamento delle differenze e delle discriminazioni di genere, un invito a considerare ciascuno di noi anima in cammino verso una propria completezza in Dio, piuttosto che monade schiava del corpo che ci ospita e degli schemi con cui cerchiamo di incasellare la realtà. I testi sacri sembrano affermare che il nostro corpo non definisce la nostra anima, che è in sé completa fin dalla creazione, in quanto creazione divina:

“Poi Dio disse: «Facciamo l’essere umano a nostra immagine, conforme alla nostra somiglianza, e abbiano dominio sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutta la terra e su tutti i rettili che strisciano sulla terra». Dio creò l’essere umano a sua immagine; lo creò a immagine di Dio; lo creò maschio e femmina.” (Genesi 1, 26-27)



Nella dottrina indù, la Verità suprema è “Io sono quello”, “TAT TVAM ASI” “TU SEI QUELLO”, cioè la consustanzialità dell’atman (anima) con il Brahman (Dio). Il Brahman, volendo manifestarsi, crea l’Universo, così come Dio nella Genesi crea il mondo per manifestare il proprio Amore. In questa Upanishad il Bramino Yajnavalkya dialoga con la moglie, Maitayi: “Quando, o cara, si vede, si ascolta, si pensa, si conosce il sé, allora tutto l’Universo è conosciuto”.

Come non pensare alla scritta sul tempio di Apollo a Delfi: “Conosci te stesso”, γνῶθι σαυτόν?

Le nuove generazioni sono pronte per fare questo passo, per abbracciare se stesse e superare la dicotomia di genere, per generare un futuro più equo per tuttə, la domanda è se i rappresentanti delle religioni lo sono altrettanto.

Francesca Saccani

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